Ragionando di incendi 

Con l’arrivo della stagione estiva, puntuale come Natale e Ferragosto, si ripresenta ogni anno il problema degli incendi rurali e boschivi, con le solite frasi ricorrenti tra la gente e negli organi d’informazione: “Un’annata come questa non s’era mai vista”, “A memoria d’uomo non si ricorda niente di simile”, e via di seguito. 

Per convincersi che così non è da almeno un cinquantennio basta consultare le serie storiche elaborate a tutti i livelli (nazionale, regionale, provinciale e perfino comunale), peraltro facilmente accessibili. Io stesso sono testimone diretto di avvenimenti che smentiscono quell’assunto, vissuti in qualità di funzionario del Corpo Forestale regionale operante per molti anni in provincia di Messina. Eccone alcuni tra i più significativi: 

Dal 14 al 17 agosto 1971 andarono in fumo centinaia di ettari di bosco ricadenti sugli opposti versanti dei Monti Peloritani, da S. Stefano Briga all’Annunziata e da Rometta a Villafranca. Per l’occasione, nei pressi di Puntal Ferraro, forte militare poco distante dalle “Quattro Strade”, persero la vita tre operai intenti a contrastare l’avanzata del fuoco, mentre pochi metri più oltre veniva avvolta dalle fiamme la Colonia Montana “Principe di Piemonte”, struttura d’epoca fascista destinata in origine a ragazzi bisognevoli di cure climatiche, ospitante in quei giorni circa 200 bambini provenienti dalla “Città del Ragazzo”, per fortuna allontanati appena in tempo. 

Dal 24 al 27 giugno 1982 un altro devastante incendio divorò oltre 800 ettari di demanio forestale, mettendo a repentaglio la stessa Caserma di Colle Sarrizzo e il vicino albergo, gestito allora dalla Provincia. Non ci furono vittime per puro caso, dal momento che in località “Molumenti”, sede di una vecchia postazione antiaerea della seconda guerra mondiale, deflagrarono in mezzo alla squadra che ivi operava numerosi residui bellici ancora attivi. Fu quello, per la cronaca, l’incendio che vide in azione per la prima volta in Sicilia, proveniente dal centro operativo di Roma, un mezzo aereo (l’Hercules C-130), ancorché con risultati assai deludenti (i più efficienti Canadair CL-215 entreranno in funzione diversi anni più tardi).

Il 1998 vide bruciare in provincia ben 6.219 ettari tra boschi e colture agrarie, con danni economici ingentissimi. Quell’anno bruciarono anche le pendici nord-orientali dei Monti Peloritani, dove a distanza di qualche mese quattro persone, tre componenti di una famiglia messinese e un extracomunitario, furono travolte e trasportate a mare dalle acque dei torrenti Annunziata e Pace, a seguito di violenta alluvione causata proprio dalla mancanza di protezione vegetale nei rispettivi bacini.

Nel 2007 la superficie incenerita fu più che doppia rispetto al ’98 (12.640 ettari per la precisione), estesa dalle aree a ridosso di Messina e villaggi fino alle campagne di Taormina a Sud e di Tusa in direzione di Palermo. Anche questa volta si è dovuto registrare un pesante tributo in vite umane, poiché in territorio di Patti, presso un noto centro agrituristico improvvisamente avviluppato dalle fiamme, trovarono morte orrenda ben 6 persone là convenute, ironia della sorte, per festeggiare una lieta ricorrenza.

Nel 2017 gli incendi imperversarono in provincia per quasi 2 settimane (dal 30 giugno al 12 luglio), costringendo le autorità competenti, tra l’altro, a chiudere alcuni tratti delle autostrade Messina-Catania e Messina-Palermo e a ordinare l’evacuazione di diversi edifici pubblici e privati, tra cui le Facoltà di Lettere e di Veterinaria del Polo Universitario dell’Annunziata.

Faccio intanto osservare che gli avvenimenti di cui sopra, non a caso riportati in sequenza, risultano distanziati l’uno dall’altro da un lasso temporale di circa dieci anni, circostanza questa non imputabile, a mio avviso, a coincidenza fortuita, ma a due fatti concorrenti: da un lato, una sorta di ciclicità nell’andamento climatico, in base alla quale a stagioni moderatamente fresche e umide altre ne succedono particolarmente calde e siccitose, contrassegnate da giornate rese torride da forti venti sciroccali; dall’altro lato, l’accumulo abnorme sul terreno di materiale vegetale infiammabile, favorito proprio dalle piogge copiose e dalla stessa mancanza di grossi incedi negli anni precedenti: due formidabili fattori avversi coi quali fare i conti quando occorre intervenire con l’opera di spegnimento.

Il fenomeno degli incendi, insomma, non è né nuovo, né recente, sebbene dopo il secondo dopoguerra, da avvenimento episodico e circoscritto a poche aree geografiche e a certi tipi di vegetazione, sia diventato male endemico e sempre più invasivo, finendo per coinvolgere tutta la fascia collinare e pedemontana dell’Isola, indipendentemente dalla destinazione colturale dei terreni, senza risparmiare talora neppure gli agrumeti di pianura. 

A causare tale mutazione, oltre ai cambiamenti climatici su cui tanto si dibatte, hanno concorso i profondi mutamenti subiti dal tessuto economico-sociale del nostro Paese, e del Meridione in particolare, a partire dagli anni ’60 del secolo scorso, concretizzatisi nello spopolamento massiccio e disordinato delle campagne verso il Nord industrializzato e all’estero. Di conseguenza è scomparsa o quasi la piccola proprietà contadina ad economia complessa, a tutto vantaggio della grande concentrazione fondiaria e della monocultura, facendo mancare all’improvviso il presidio capillare e la minuta manutenzione del territorio, e condannando molti terreni così detti “marginali” al completo abbandono. 

Proprio perché, come si vede, il problema degli incendi affonda le sue radici nella società (similmente, per intenderci, a quanto avviene per la droga, la devianza giovanile, gli inquinamenti ambientali, ecc.) esso non ammette soluzioni semplici, unidirezionali, ma strategie complesse e a lungo termine, volte a individuare gli attori principali (attivi e passivi), le cause più ricorrenti, gli interessi in gioco, i disincentivi, i rimedi possibili. Chiamando a raccolta, quindi, la comunità nelle sue varie articolazioni, a cominciare dalla scuola e dagli organi di informazione. Finché esso rimane circoscritto a Vigili del Fuoco, Forestali e Forze dell’Ordine è una battaglia dall’esito compromesso in partenza. 

Com’è facile comprendere da questi brevi cenni, la trattazione esauriente di una tale questione richiederebbe ben altro che una nota di poche righe. La quale, pertanto, intende solo fornire qualche elemento, a chi specialista non è, sugli aspetti principali del problema. 

Dalle prime lezioni dei corsi in materia, oltre agli elementi costitutivi del fuoco (sui quali non mi soffermo per evitare argomenti troppo tecnici), si apprende che nella lotta agli incendi in argomento si usa distinguere due fasi principali: la prevenzione e la repressione.

La prima non si limita soltanto, come si potrebbe pensare, a tenere comportamenti prudenziali, specie nel caso di giornate calde e ventose (non bruciare residui vegetali, non gettare dalla macchina in corsa cicche di sigaretta e cerini spenti all’apparenza, non pretendere di cuocere salsicce e braciole in pieno bosco). Consiste soprattutto nell’impedire che materiale combustibile si accumuli a dismisura sul terreno tra un incendio e l’altro, ripulendo le scarpate stradali e ferroviarie, predisponendo cinture di salvaguardia a difesa dei complessi boscati, dei centri aziendali, delle case di villeggiatura, degli abitati più a rischio. La prevenzione vera, in altri termini, non si pratica nel periodo estivo, quando il termometro s’impenna, ma nei mesi invernali, allorché è possibile sottrarre in sicurezza molta esca al fuoco e interrompere, se necessario, la continuità del manto vegetale. In proposito, sarebbe opportuno per le aziende agricole e le case di campagna saltuariamente frequentate rendere obbligatorio un libretto di sicurezza antincendio, a somiglianza di quanto già avviene per i locali pubblici, considerato che tante persone, anche in buona fede, non hanno l’esatta percezione dei pericoli incombenti, se non quando è troppo tardi. Così come è inconcepibile che tanti terreni privati rimangano incolti per anni diventando, quando bruciano, cinghia di trasmissione del fuoco verso le incolpevoli proprietà confinanti. 

Nel campo della prevenzione ricadono a buon diritto anche i provvedimenti legislativi messi in atto nel tempo per contrastare gli “interessi insiti nell’incendio”. Per scoraggiare, ad esempio, chi pensava di creare posti di lavoro bruciando i boschi per essere poi ricostituiti (giusto il detto coniato negli anni settanta, secondo cui “s’imboschisce per bruciare e si brucia per rimboschire”) la legge vigente ha opposto il divieto d’intervenire per almeno cinque anni, tranne casi eccezionali, con “attività di rimboschimento e di ingegneria ambientale sostenute con risorse finanziarie pubbliche”; per evitare speculazioni di varia natura, “le zone boscate ed i pascoli i cui soprassuoli siano stati percorsi dal fuoco non possono avere una destinazione diversa da quella preesistente all’incendio per almeno quindici anni”, prescrizione questa da riportare obbligatoriamente in eventuali atti di compravendita, pena la loro nullità ope legis; nelle aree boscate, in particolare, “è vietato per i dieci anni successivi all’incendio” costruire, pascolare, esercitare la caccia e, per i primi tre anni, perfino raccogliere i prodotti del sottobosco. 

Nella stessa direzione vanno le norme del codice penale dedicate agli autori degli incendi: di quello colposo (cioè provocato per negligenza, imprudenza o imperizia) punito con la  reclusione da 1 a 6 anni e di quello doloso (cioè causato intenzionalmente) punito con la reclusione da 3 a 10 anni, in base alle circostanze e ai danni arrecati a cose altrui, a strutture pubbliche e private, o al pericolo per l’incolumità pubblica.

 Tutte cose, come ognuno può vedere, assai meritorie e di buon senso, se non fosse per il fatto che rimangano in gran parte sulla carta, sia per la carenza di personale addetto, sia per difficoltà obbiettive (si pensi a quanto sia difficile individuare i responsabili degli incendi, specie di quelli dolosi).

Circa la lotta attiva, il suo buon esito è affidato in primo luogo alla tempestività dell’intervento, per il semplice motivo che ogni incendio, originandosi per lo più dalla fiammella di un cerino, nasce piccolissimo prima di diventare un grande rogo, e che la superficie percorsa dalla fiamme cresce col tempo non in senso aritmetico ma geometrico, specie in presenza di venti favorevoli (per rendere l’idea, ipotizzando che nei primi 15 minuti il fuoco abbia interessato 100 metri quadri di superficie, nei 15 minuti successivi essa non sarà diventata il doppio ma 100 volte tanto, cioè 10.000 mq. Ne consegue che laddove nel primo quarto d’ora sarebbero bastate poche unità operative per chiudere il caso, dopo mezz’ora ne servono il triplo o più, finché non resta che l’intervento aereo). 

Il risultato auspicato nell’esempio può essere conseguito a due condizioni: a) poter contare su un efficiente servizio di avvistamento incendi, tanto di giorno che di notte, così da avvisare in tempo reale le stazioni operative cui spetta l’onere di coordinare gli interventi; b) poter disporre di squadre di pronto intervento, anche piccole, in grado di raggiungere il punto fuoco in pochi minuti, meglio ancora portando al seguito riserve d’acqua anche modeste. Simili condizioni sono realizzabili coinvolgendo in pieno anche i Comuni competenti per territorio (da sostenere allo scopo finanziariamente), i quali per di più possono far valere la perfetta conoscenza dei luoghi e delle persone. Si costituirebbe in tal modo una fitta rete di controllo del territorio, oltre ad acquisire da parte delle comunità locali la coscienza di esserne gli autentici custodi. 

Tutto ciò ovviamente non esclude che qualche incendio possa sfuggire di mano, sul quale tuttavia, essendo l’eccezione anziché la regola, potranno affluire in massa gli uomini e i mezzi predisposti dalla Protezione civile. 

Si osserverà a questo punto che per realizzare gli obbiettivi via via delineati, compresa la puntuale applicazione di tutte le norme di legge in vigore, occorrano forti investimenti di capitali pubblici e privati. Dimenticando che i fondi necessari a riparare i danni diretti e indiretti arrecati dai roghi all’economia e all’ambiente sono di gran lunga superiori. 

Quanto ai danni diretti basta pensare al ripristino di tutte le situazioni quo ante: la perdita di raccolti e foraggi; il reimpianto delle colture e dei boschi bruciati, ivi compresi i mancati redditi e i costi di gestione da sostenere per ritornare alle condizioni di partenza; la ricostruzione degli immobili danneggiati o distrutti; l’acquisto dei macchinari e delle suppellettili andati in fumo; la riparazione delle condotte idriche, elettriche e telefoniche messe fuori uso; il reintegro degli animali periti tra le fiamme. Per non parlare della perdita di vite umane e delle tragedie procurate a tante famiglie. 

Tra i danni indiretti, ancorché non sempre facilmente quantificabili, vanno ricordati i guasti e i lutti procurati dalle alluvioni conseguenti alla scomparsa di copertura vegetale, alle compromissioni nel settore turistico, ai disservizi a carico delle popolazioni coinvolte, agli inquinamenti di vario tipo, ai riflessi negativi in campo sanitario, alla perdita di biodiversità, alla sterilizzazione dei terreni, all’avanzamento della desertificazione, all’aumento di anidride carbonica in atmosfera con tutto quel che ne consegue.