L’infinito di Leopardi: dalla «siepe» dei limiti recanatesi all’«immensità» illimitata dell’essere
“A tutti coloro che amano la letteratura e, in particolare, agli studenti e ai professori di tutte le Scuole Secondarie di Secondo Grado e dei Dipartimenti umanistici dedico, con un pizzico di orgoglio cariddoto, questa nuova (e forsanche rivoluzionaria) interpretazione del più famoso idillio della letteratura italiana.“
Giuseppe RANDO
La critica letteraria non è un’attività divinatoria né tampoco creativa, bensì una disciplina condotta sui testi, secondo parametri e modelli codificati, a fini perlopiù conoscitivi, valutativi, descrittivi, comunque anti-impressionistici. È anche assimilabile a un’indagine poliziesca sempre aperta e mai portata a compimento. Giuseppe Petronio era solito parlare dell’opera d’arte come di uno scrigno che si apre con molte chiavi (cioè con molti metodi critici), ma giammai tanto da svelare totalmente e a tutti il suo tesoro. La metafora – indovinata invero – rinvia alla concezione laica, moderata, possibilistica, relativistica della critica letteraria che fu di quel grande maestro (forse, troppo maldestramente tacciato di sociologismo): per lui, nessuna tendenza della critica – nessuna “chiave” – può vantare un qualche primato euristico sulle altre laddove il lavoro del critico, anche sullo stesso testo, può (dovrebbe!) avvalersi di più di una chiave e non è mai pensabile come definitivo, concluso.
Chi scrive frequenta da più di un trentennio i testi leopardiani e si misura, in ispecie, con L’infinito, uno dei vertici della poesia di tutti i tempi e di tutte le latitudini, nonché uno dei testi più complessi, ambigui, polisensi – et pour cause – della letteratura italiana e non solo: la smisurata selva di saggi critici che vi si è stratificata sopra lo dimostra pienamente urbi et orbi. Questo, che vuole essere l’ultimo (ma non conclusivo, ovviamente) intervento dello scrivente stesso sull’Infinito, nasce dall’inatteso collegamento (per una improvvisa associazione d’idee) della conclusione delle sue precedenti indagini con una acutissima notazione di Luigi Blasucci (di cui si dirà più avanti): come che sia, si tratta di un’ulteriore e avanzata (nelle intenzioni dello scrivente) apertura dello «scrigno», che non si aprirà mai del tutto. Ma procediamo con ordine, ripercorrendo, per comodità del lettore, il filo ininterrotto delle precedenti ricerche.
Vale forse la pena di ricordare che lo scrivente ha mirato, ab initio, alla ricostruzione del contesto in cui maturò la composizione dell’idillio stesso, nella convinzione che non c’è opera d’arte che si risolva interamente sul piano dell’autonomia e della autoreferenzialità, essendo – a giudizio suo e di molti – il testo e il contesto uniti da un nesso indissolubile e reciprocamente illuminante. Che cosa scriveva e, quindi, che cosa pensava, nel 1819, il genio di Recanati nei mesi o nei giorni che precedettero l’Infinito? E quale incidenza esercitò sulla composizione del celebre idillio quanto il poeta stesso andava all’epoca maturando? Ebbene, Leopardi scriveva e/o abbozzava, in quel breve lasso di tempo, molte opere e, in particolare, tra il marzo e l’aprile, le due rivoluzionarie «canzoni censurate» (Nella morte di una donna fatta trucidare col suo portato dal corruttore per mano ed arte di un chirurgo – d’ora innanzi Nella morte di una donna – e Per una donna inferma di malattia lunga e mortale), il secondo degli Argomenti di idilli (probabilmente nel giugno) e il pensiero di Zibaldone, 50-51, risalente «con molta probabilità all’aprile del ’19», secondo Pacella[1], nonché gli abbozzi degli Inni cristiani, non rigidamente papalini (nell’estate), e nell’estate-autunno dello stesso anno, il clamoroso abbozzo di Telesilla. È pressoché inutile ricordare che, durante questa straordinaria fase creativa, proprio «nel periodo primavera-autunno» di quel fenomenale ’19, Leopardi componeva, secondo Ghidetti[2], L’infinito, e sempre nel ’19, Alla luna.
Ma non si finirà mai di sottolineare che, mentre poneva mano, con entusiasmo, a queste e ad altre opere, il giovane Leopardi cambiava radicalmente la sua visione del mondo (o che, per converso, la ricca fioritura di tali opere era conseguente a una sua mutata visione del mondo), ch’era stata, fino a qualche mese prima, imperniata sul classicismo antiromantico in letteratura (codificato nella Lettera ai signori compilatori della Biblioteca Italiana del 1816 e nel Discorso di un italiano intorno alla poesia romantica del 1818), sul conservatorismo papalino, austriacante e antifrancese in politica (attestato, se non altro, dall’orazione Agl’Italiani del 1815), sul cattolicesimo antilluministico in filosofia (evidente nel Saggio sopra gli errori popolari degli antichi del 1815). Ne derivavano, per lui, steccati alti e insormontabili – dati, in casa, come assoluti – tra la poetica dei classici e quella degli odiati romantici («schifosissima materia» era, per lui, la poesia romantica in un passo del Discorso di un italiano)[3], nonché ostacoli immani, di presunto ordine etico (accompagnati da profondi sensi di colpa), di fronte alla possibilità di vivere fuori dai canoni della rigida morale cattolica (si pensi alla cantica L’appressamento della morte del 1816).
Vale a stento la pena di ricordare quel passo famoso del Discorso di un italiano intorno alla poesia romantica, in cui si era concentrata la fiera, irriducibile polemica del poeta contro la poesia «sentimentale» dei romantici. Il Recanatese era, difatti, nell’agosto del 1818, solo pochi mesi prima della composizione di Nella morte di una donna, assolutamente convinto del fatto che la «vera e incorrotta sensibilità» fosse quella degli antichi, nei cui versi «non parlava o non parea che parlasse […] il poeta, ma il cuore del poeta», laddove presso i romantici, la cui sensibilità gli appariva «contaminata e corrotta», «parla instancabilmente il poeta, parla il filosofo, parla il conoscitore profondo e sottile dell’animo umano» (p. 936), per l’appunto.
Ebbene, non erano passati sei mesi da quando il classicistico Discorso di un italiano era stato completato che Giacomo Leopardi pose mano alle due «canzoni censurate» (sommamente sgradite al cattolico classicista Monaldo), che dicono molto – certamente più di quanto comunemente si creda – sulla difficile maturazione del poeta. Ma va detto che, pur essendo ambedue perfettamente omologhe sul piano stilistico e linguistico, fu Nella morte di una donna quella che suscitò lo scandalo: si sa della sua genesi occasionale, della censura monaldesca che ne impedì la pubblicazione, di un primo titolo, poi cassato, e di altri dati minuti. La nota approntata da Enrico Ghidetti, per l’edizione di Tutte le opere di Giacomo Leopardi, è sotto questo profilo, esaustiva:
Composta a Recanati fra il marzo e l’aprile 1819. Fu inviata, con una lettera del 4 febbraio 1820, al Brighenti perché la stampasse a Bologna con la precedente (ma, secondo un’ipotesi dello Scarpa, cronologicamente successiva a questa) e la canzone al Mai. Nel ms. inviato a Bologna il titolo suona: Nello strazio di una giovane ecc. L’intervento di Monaldo impedì la pubblicazione della poesia (che si riferisce a un fatto di cronaca nera avvenuto poco tempo prima a Pesaro e di cui fu vittima una signora, Virginia del Mazzo) che vide la luce per la prima volta negli Scritti vari e inediti tratti dall’autografo napoletano (p. 1443).
Quel che, invece, non pare si sia finora considerato a sufficienza è il carattere scandalosamente anomalo della canzone stessa, che non solo è l’unica leopardiana ispirata ad un fatto di cronaca nera (un delittuoso caso di aborto), ma contraddice, in maniera clamorosa, a tutte le proposizioni di poetica elaborate, fino a quel momento, da Leopardi, presentando aspetti del tutto innovativi rispetto alla sua precedente produzione poetica.
Certo, Nella morte di una donna è l’unica canzone di Leopardi in cui tracimano moduli stilistici enfatici, da romanzo noir, fortemente larmoyants, tipici del peggiore romanticismo «sentimentale»:
Misera, invan le braccia
Spasimate tendesti, ed ambe invano
Sanguinasti le palme a stringer volte,
Come il dolor le caccia,
Gli smaniosi squarci e l’empia mano.
Or io te non appello,
Carnefice nefando, uso ne’ putri
Corpi affondar l’acciaro:
Odimi a te favello
O scellerato amante. Ecco non serba
La terra il tuo misfatto, e invan l’amaro
Frutto celasti a la diurna luce,
Cui già di sotto all’erba
Ultrice mano al pianto e al sol riduce (pp. 323-324).
Già la trama logico-strutturale della canzone è estremamente indicativa dell’opzione romantica dell’autore, che «parla instancabilmente» nel testo: a) il poeta registra, in un misterioso empito di immedesimazione, l’angoscia che lo pervade «poi ch’il miserando nunzio s’intese» (io); b) interpella la donna «trucidata» e ne rivive lo «scempio» (io/tu); c) investe lo «scellerato amante» per stigmatizzare il suo comportamento (io/tu); d) consola la «sfortunata», che ha lasciato «misera […] e nequitosa vita» (io/tu); e) assolve (contro «l’incauto volgo») l’amore e accusa il «fato», chiamando a testimoni gli «spirti gentili» (io/voi); f) afferma di trovare conforto, l’unico conforto nell’amore (io). Quanto dire che la voce (più che il «cuore») del poeta («filosofo») prevalga sulla parte descrittiva, sulle «immagini», per usare il suo lessico.
È però del tutto evidente che l’autore implicito di questa canzone è proprio il poeta romantico contro cui Leopardi aveva scagliato i suoi strali, acuminati, pochi mesi prima, e che Nella morte di una donna sia un perfetto esemplare di poesia «sentimentale», di quel genere di poesia – vale a dire – da lui stesso, contestata in sommo grado, fino a qualche mese prima.
Giacomo è diventato, in altri termini, l’altro da sé, che aveva cercato di annientare: forma estrema, invero, e assoluta di mutabilità (del genio).
E ha composto un’opera del tutto conforme al modello che aveva dimostrato, pochi mesi prima, di aborrire[4]. Egli non poteva, peraltro, non essere pienamente consapevole della netta diversione, se nel titolo stesso della sua canzone sfoggiava un termine («trucidare»), del quale si era servito, nel Discorso di un italiano intorno alla poesia romantica, per definire, in sintesi, tutto ciò che deprecava della poesia romantica. Leggiamo:
Ora non metterò a confronto la delicatezza la tenerezza la soavità del sentimentale antico e nostro, colla ferocia colla barbarie colla bestialità di quello dei romantici propri. Certamente la morte di una donna amata è un soggetto patetico in guisa ch’io stimo che se un poeta, colto da questa sciagura, e cantandola, non fa piangere, gli convenga disperare di poter mai commuovere i cuori. Ma perché l’amore deve essere incestuoso? perché la donna trucidata? perché l’amante una cima di scellerato, e per ogni parte mostruosissimo? Troppe parole si potrebbero spendere intorno a questo argomento, stante che l’orridezza è l’uno dei caratteri più cospicui del sentimentale romantico […] (pp. 938-939).
La coincidenza dei termini e dei concetti – ma anche e soprattutto la polarità dell’atteggiamento mentale -, nel Discorso e nella canzone censurata, è davvero impressionante: «perché la donna deve essere trucidata?» si chiedeva, ma dopo sei mesi intitolava un suo componimento a una donna «fatta trucidare [il corsivo è mio] col suo portato dal corruttore per mano ed arte di un chirurgo»! Vale, a stento, la pena di segnalare come anche l’odiato stilema dello «scellerato amante», già ricusato nel Discorso («perché l’amante una cima di scellerato, e per ogni parte mostruosissimo?») si sia risolutamente insediato nella strofa sopra riportata.
Nell’illustrare, peraltro, nella prima parte del Discorso, le tre «cagioni» del «diletto» che suscita la poesia romantica (e quindi del suo successo presso i lettori), Giacomo aveva condannato duramente gli «eccessi» cui si abbandonerebbero i romantici: «In fatti cercano col candelino, come ho già detto di sopra, quelle più strane cose che si possono immaginare, o sieno semplicemente stravaganze singolarissime per natura loro; o sieno eccessi di qualsivoglia genere, segnatamente misfatti atrocissimi, cuori e menti d’inferno, stermini subissi [sic] orrori diavolerie strabocchevoli…» (p. 927). Non avrebbe mai potuto immaginare che qualche mese dopo avrebbe cercato lui, «col candelino», uno di quei «misfatti atrocissimi» per farne oggetto di una sua poesia.
Non solo: scrivendo Nella morte di una donna, Giacomo Leopardi che, nell’abbozzo del romanzo Diario del primo amore e quindi nella pressoché contemporanea canzone Il primo amore[5], aveva mostrato un’inclinazione tutta immacolata (platonico-cristiana) dell’amore, prendeva atto dell’esistenza di un amore non santificato dal matrimonio e si schierava risolutamente dalla parte della donna, non più peccatrice, ma vittima da compiangere, di due carnefici (l’amante e il chirurgo), suscitando lo sdegno di Monaldo. Come a dire, invero, che la canzone, nonostante i suoi limiti stilistici, sottintendeva la caduta imprevista, repentina, «di salto», di uno dei più alti steccati ideologici – quello del cattolicesimo tridentino, rigidamente precettistico – da cui il poeta era, da troppo tempo, condizionato.
Ma «tutto si tiene», anche nella vita dei poeti. Difatti, il distacco dalla morale cattolica più retriva, all’epoca dominante nel contesto papalino-recanatese, è palpabile anche nella Telesilla, dove quel giovane dottissimo per cui era stata immaginata dai genitori una (casta!) carriera ecclesiastica, giunge a concepire l’idea, molto vicina all’eresia vera e propria, del «peccar quasi innocente». Vediamo.
È, in effetti, nell’abbozzo di Telesilla (redatto tra nell’estate-autunno del 1819 e, quindi, perfettamente contestuale – non si dimentichi – alle due «canzoni censurate», agli appunti sugli Inni cristiani e all’Infinito) che l’opposizione cattolica di amore (sesso) e peccato trova una soluzione inedita. Vediamo.
La Telesilla evidenzia, invero, un’allure da «favola pastorale» (in Per un’avvertenza della Telesilla, Giacomo nota che si «potrà paragonare la Telesilla alle pastorali Italiane, p. e. al Pastor Fido ec.»)[6], ma si tratta, a ben considerare, di un testo post-tridentino, una sorta di Pastor Fido capovolto (e quindi di Aminta capovolta), in virtù dell’insorgenza prepotente, in esso, della questione morale connessa alla colpa nei fatti di cuore. Laddove, infatti, gli amori di Mirtillo e Amarilli e quelli paralleli di Silvio e Dorinda, vanamente contrastati da Corisca e da oracoli divini, si concludono felicemente nell’opera del Guarini (e il lieto fine non manca, certo, nell’Aminta), del tutto tragicamente si conclude la «favola» leopardiana.
La Telesilla, che sviluppa un episodio del Giron Cortese di Luigi Alamanni, riprende, invero, esaltandolo, pur nella precarietà della testura assolutamente provvisoria, il tema del peccato, qui avvertito come senso di colpa conseguente al congiungimento carnale di due amanti adulteri: Telesilla, moglie di Danaino, e Girone, il migliore amico di Danaino. Secondo norma (psicanalitica), il desiderio incentiva il senso di colpa (con il conseguente bisogno di espiazione) e il senso di colpa, a sua volta, ingigantisce il desiderio, in un processo senza fine in cui i due poli del piacere e del dovere si divaricano, incrementandosi a vicenda: il narratore implicito, evidentemente non ignaro del processo, è del pari scisso fra il bisogno di punire, da intellettuale cattolico, i reprobi lussuriosi e la necessità di dare congrua espressione, da poeta romantico, alla malia travolgente dei sensi e alla sua invincibile, umana necessità.
L’abbozzo si compone di una Parte prima già versificata e di una Parte seconda per lo più ancora in prosa. Vi si narra di Telesilla e Girone che, nel ritornare a cavallo a Maloalto, seguiti da Danaino, marito di Telesilla ed amico di Girone, nonché signore di quel castello, càpitano in una radura solitaria, mentre scende la sera. Dopo essersi dichiarati reciproco amore e dopo mille ripensamenti e rimorsi, si abbandonano alla passione. L’indomani mattina vengono raggiunti da Danaino, il quale insospettito uccide la moglie e viene ucciso da Girone.
Leopardi indugia, invero, oltre ogni limite, con tecnica assolutamente innovativa rispetto ai canoni tradizionali della poesia amorosa, sulla tentazione, sui dubbi, sulla rinuncia dichiarata a parole ma non eseguita nei fatti, sulla inarrestabile forza dell’attrazione sessuale dei due giovani e sul loro tardivo, bruciante pentimento.
Della novità cui l’opera aspira è, peraltro, egli stesso consapevole se nel già citato scritto Per un’avvertenza alla Telesilla, così scrive: «Forza e verità moderna della passione, unita per la prima volta alla semplicità e agli altri pregi antichi»[7]. E non si può non sottolineare l’assoluta pregnanza semantica dell’aggettivo (moderna), che accompagna l’euforico binomio (forza e libertà), nonché la chiara consapevolezza, da parte del genio, dell’innovativo («per la prima volta») tentativo di coniugare i contenuti dei moderni con i «pregi» formali degli antichi: la nota può essere assunta, per altri versi, come una limpida dichiarazione di poetica, che pare trascendere il dato immediato per cui è stata scritta.
Ma torniamo alla Telesilla, per rilevare che è proprio nella reiterazione del meccanismo psicologico in cui il desiderio e il pentimento si succedono, incrementandosi a vicenda, il segno della novità del testo, rispetto ai corrispettivi topoi della letteratura amorosa.
La Parte prima, dopo un’ouverture bucolica sui giochi innocenti di due pastorelli e di una pastorella nella radura che sarà teatro della tragedia, procede sul binario dialogico della tentazione d’amore e del repentino pentimento, intervallato dalla constatazione epidermica ora del luogo solitario, ora del silenzio, ora del loro esser «soli» (per la prima e forse unica volta) o dalla rievocazione del primo dardo amoroso, che entrambi ad un tempo colpì. Il meccanismo dualistico di tentazione-pentimento si ripete per ben quattro volte nelle scarne pagine dell’abbozzo. Dapprima è la donna, dopo un momentaneo cedimento, a pentirsi:
GIRONE Oh cara,
m’ami?
TELESILLA Deh taci oh Dio, che non ti senta
veruno, e Danain che nol risappia.
Oimé, che cosa io dissi? io già non dissi
d’amarti ch’ei non lice (pp. 342-343).
Quindi, ambedue gli amanti, dopo aver constatato che «l’ora è tarda, // né più secreto loco ha ne’ dintorni» e che «non darassi // a noi tal congiuntura un’altra volta // fin che vivremo», vengono assaliti dal pentimento:
TELESILLA Oh Dio, taci: non pensi
che noi bramiamo alfin quel che non lice?
GIRONE Tu parli ver, ma certo io sono al tutto
fuori di senno (p. 344).
Ma l’insistenza di Girone, il quale è convinto che «s’io non farò quello ch’io bramo // già mai dal pentimento e dal desio // non avrò pace», sembra piegare le residue resistenze di Telesilla: «dunqu’or nessuna // difficoltà ci vieta il desir nostro». La donna però, subito dopo, viene ripresa dai dubbi: «Né pentiremci poi?», coinvolgendo lo stesso Girone, che prima si propone di rinviare («Io nol vo’ far già mai; pur quand’io voglia // farollo un’altra volta») e poi rinuncia del tutto: «Io di me stesso// mi maraviglio e mi vergogno. In somma // io di peccare intendo? Io farò scorno // al caro amico mio? Che cosa è questo // deliberar? si scorda in un momento // la virtù che s’è culta infino ad ora? // […] O Telesilla, questi // disegni son follie, poniam da canto // ogni pensier di questi fatti: ad altro // volgiamo il favellar». È tuttavia l’amore, alla fine, che trionfa:
GIRONE Dammi la mano, o Telesilla, oh quanto
se’ bella.
TELESILLA Oh caro oh caro: io più non veggio (p. 346).
La spirale di peccato e immediato pentimento si chiude definitivamente nella Parte seconda, placandosi – si direbbe – in un’inattesa, pacificata soluzione: «Questo sì ch’è fieriss. travaglio. Oh se mai fatto io non l’avessi! oh come or sarei fortunato! Adunque io punto Non m’inganno? io peccai! Giron, peccasti? Mi pare un sogno. Ahi, ahi, chi l’avria detto? Ch’io dovessi peccar quasi innocente Non fossi stato infin da quando io nacqui? Più ch’io ci penso parmi esser un altro. Oh virtù mia come sei gita. Certo se visto non l’avessi, io mai Creduta non l’avrei così da poco»[8].
L’impressione marcata che se ne ricava è che il poeta abbia trovato, proprio nell’atto di abbozzare la Telesilla (opera segnata da una persistente morbosità adolescenziale per le cose del sesso), l’inedita e quasi contraddittoria ipotesi del «peccar quasi innocente», come possibile alternativa all’autocastrazione imposta dal perentorio Superego della morale tridentina: vi si accompagna, per contrappeso, la scoperta di un io debole («parmi esser un altro»), del tutto opposto a quello indomito e pugnace della Cantica e della canzone All’Italia.[9]
Ove si consideri poi che la letteratura non è mai per Leopardi puro gioco formale o trastullo grazioso della mente bensì sempre traduzione-trascrizione, iuxta propria principia, di sue esperienze vitali, non si potrà non convenire sul fatto che, in quello straordinario 1819, il poeta dovette scoprire, per chissà quali vie, il lato oscuro, peccaminoso – e tuttavia fascinoso, irresistibile – del sesso (dopo l’idillio del Primo amore): l’amore, il desiderio e l’adulterio, che porta all’aborto e alla morte in Nella morte di una donna; l’amore, il desiderio, l’adulterio e l’uccisione degli amanti in Telesilla. L’insistenza sul tema, in componimenti di vario genere redatti o appena abbozzati nello stesso periodo, denuncia l’interesse del ventunenne poeta per tale incandescente materia e forsanche la sua esperienza (o quantomeno la tentazione) dell’amore irresistibile, ma sconveniente, e del relativo rimorso. La sessuofobia sottesa nell’abbozzo coevo di A una fanciulla[10] e il «peccar quasi innocente» di Telesilla sono, in tale ottica, i due antitetici, ma non contraddittori, esiti psicologici di tale scoperta.
E si noti con quanto turbamento lo stesso Leopardi rievoca, nei Ricordi d’infanzia e di adolescenza (redatti nel marzo-maggio del 1819), il piacere, provato in sogno di un bacio (p. 364):
sogno di quella notte e mio vero paradiso in parlar con lei ed esserne interrogato e ascoltato con viso ridente e poi domandarle io la mano a baciare […] e io baciarla senza ardire di toccarla con tale diletto ch’io allora solo in sogno per la prima volta provai che cosa sia questa sorta di consolazioni con tal verità che svegliatomi subito e riscosso pienamente vidi che il piacere era stato appunto qual sarebbe reale e vivo e restati attonito e conobbi come sia vero che tutta l’anima si possa trasfondere in un bacio […].
Non è, peraltro, insignificante il fatto che, in un pensiero coevo (Zib., 51), Giacomo Leopardi si ponga, per la prima volta nello Zibaldone, il problema del peccato e della
innocenza, asserendo: «Intendo per innocente non uno incapace di peccare, ma di peccare senza rimorso». Quanto l’argomento gli stesse a cuore è testimoniato, peraltro, da un pensiero del 14 ottobre 1820 (Zib., 276), in cui, egli stesso, rifacendosi al precedente, aggiunge:
Nello stesso modo io non chiamo malvagio propriamente colui che pecca (molti non peccano per viltà, per ignoranza del male, per imperizia e mancanza d’arte nell’eseguirlo, per impotenza fisica o morale o di circostanza, per torpidezza, per abitudine, per vergogna, per interesse, per politica, per cento tali ragioni), ma colui che pecca o peccherebbe senza rimorso.
Dove pare di capire che il senso del peccato non fosse più, in quel periodo, per il poeta, automatico e pervasivo, come lo era stato negli anni dei Puerili:[11] innocente è chi, dopo aver peccato, prova rimorso; colpevole («malvagio» nel suo lessico) non è necessariamente chi commette il peccato, ma chi non ha rimorso del peccato commesso. E meno sorprende, alla luce di questi pensieri, la notazione quasi contraddittoria di Girone, nella Parte seconda dell’abbozzo di Telesilla: «Ch’io dovessi peccar quasi innocente». Assai labile e incerto, ad ogni modo, il limite fra peccato e innocenza, di fronte all’amore, in questi testi coevi dell’Infinito.
Ma val la pena di ritornare a Per un’avvertenza alla Telesilla, e a quel paragrafo, in ispecie, in cui il Recanatese trova il modo di fare dichiarazioni assai illuminati sulla sua, invero mediana, posizione letteraria e ideologica fra Classicismo e Romanticismo.
Forza e verità moderna della passione, unita per la prima volta alla semplicità e agli altri pregi antichi.
Ma di queste cose discorrerò di proposito altrove e mostrerò che non ignoro o disprezzo né l’arte né la natura, e che forse non merito di essere né scomunicato da’ seguaci veri de’ classici, né deriso da’ filosofi e indagatori delle alte sorgenti del bello.
Perché poi se stimano che la controversia fra i romant. ec. sia stata se il poeta debba meditare e inventare ec. e se la novità ci voglia in poesia ec. sappiano che questa controversia non è stata mai al mondo fra uomini d’intelletto, non solamente dopo nati i romantici, ma in nessun tempo (349).
Verrebbe fatto di chiosare che notazioni tanto decise valgono più dei molti libri che sono stati scritti sull’argomento: vi si legge il proponimento del poeta di ritornare sulla «polemica» (il Discorso d’un italiano sulla poesia romantica, completato nell’agosto del ’18, non era stato ancora pubblicato, e non lo sarebbe mai stato, vivente il poeta), per esplicitare, dopo le «canzoni censurate», gli abbozzi, gli argomenti e l’Infinito, la sua scelta di equidistanza (o, al limite, di estraneità) da ambedue gli schieramenti, in perfetta sintonia peraltro con la nota formula neoclassica («Sur des pensers nouveaux, faisons des verses antiques») di André Chènier, il cui nome non compare tuttavia nello Zibaldone: non è forse superfluo sottolineare, a tal riguardo, come una coppia antitetica, pressoché identica, di aggettivi sia presente tanto nel testo francese (nouveaux–antiques) quanto nel testo leopardiano (moderna–antichi).
Ma il brano trasmette altre due informazioni importanti, su cui non si può sorvolare: a) che Leopardi era consapevole, nel 1819, di essere o di poter essere «scomunicato» da un partito (i classicisti) e «deriso» dall’altro (i romantici), senza meritarlo; b) che la famosa «controversia» non verteva, a suo giudizio, sulla componente razionale, filosofica («meditare») dell’opera d’arte, né sulla imitazione da seguire o meno («novità») «in poesia», questioni, per lui, parrebbe, scontate: la sua posizione in merito era, ad ogni modo, diversa sia da quella dei classicisti pedanti sia da quella dei romantici estremisti: al di fuori o al di sopra degli steccati.
In realtà, l’avvertenza attesta una fase di superamento da parte di Leopardi, anche sul piano teorico, delle posizioni certamente unilaterali e marcatamente antiromantiche del Discorso, costituendo un tassello assai significativo della sua poetica in fieri: si consideri che i romantici, severamente rampognati nel Discorso, vengono qui gratificati come «indagatori delle alte sorgenti del bello» e che la denominazione di «filosofi» non conserva alcunché dell’accezione riduttiva, se non spregiativa, colà evidenziata.
Si registra, insomma, di fronte all’abbozzo di Telesilla, la stessa situazione verificatasi in occasione delle due «canzoni censurate»: mentre elabora testi romantici, incentrati sul binomio amore-morte, Leopardi si lascia alle spalle la poetica del Discorso, avventurandosi in territori sconosciuti e prendendo coscienza, non senza autocompiacimento, di avere scavalcato i limiti imposti, cioè della sua diversità: in questo caso, della sua estraneità a ciascuno dei due gruppi che si scontravano aspramente, in quegli anni, sul Bello e sul Vero. In più, vi si evidenzia la scoperta del «peccar quasi innocente» e quindi della labilità dei confini fra colpa e innocenza nell’etica amorosa.
Va, peraltro, sottolineato che la stessa presa di distanze dal retrivo cattolicesimo papalino dell’epoca pare sottesa agli abbozzi degli Inni cristiani, redatti, come dicevamo, nell’estate del 1819, qualche mese – se non qualche giorno – prima dell’Infinito.
Gli appunti degli Inni cristiani, gli abbozzi e il Discorso intorno agli inni e alla poesia cristiana, anch’essi «databili fra l’estate e l’autunno del 1819» (posteriori dunque ai primi quattro Inni sacri del Manzoni e anteriori alla Pentecoste) lasciano intravedere, difatti, nelle pur esili trame, due nitidi vettori tematici, con le corrispettive nuances stilistiche: quello della religiosità popolare, tuttavia interna all’ortodossia cattolica, che non avrebbe avuto alcun esito nella vita e nell’opera del poeta, e quello (ben altrimenti fertile nei terreni poetici leopardiani) della miseria, della fragilità, della debolezza umana, come stemma dei figli d’Adamo, cui il Salvatore guarda tuttavia con grande comprensione[12].
Si prefigurano, negli appunti, difatti, rituali «invocazioni a Maria per la povera Italia» e «opinioni contadinesche […] intorno a certe feste». Ma è particolarmente degno di attenzione il riferimento esplicito al progettato recupero di «tutto quel poetico che ha la superstizione nella materia dei spiriti e dei geni» (p. 337): quanto basta, in effetti, per inferire lecitamente che il poeta, lungi dal rigorismo ortodosso dei Puerili e del Saggio sopra gli errori popolari degli antichi, abbia finito col recepire, sul piano concreto della prassi poetica, insieme con gli eccessi «sentimentali» delle due canzoni «censurate», anche i postulati romantici sulla religione e sul meraviglioso della religione popolare, nella fattispecie.
Nell’abbozzo dell’Inno al Redentore e nel Supplemento al progetto degl’inni Cristiani si esplicita, invece, la visione non trionfalistica, bensì solidale, partecipe della religione cattolica: «Pietà di tanti affanni, pietà di questa povera creatura tua, pietà dell’uomo infelicissimo, di quello che hai redento, pietà del gener tuo, poiché hai voluto aver comune la stirpe con noi, esser uomo anche tu» (ibid.).
Emblematico appare anche, in tale ambito, come dicevamo, il tema della infelicità dei figli di Maria: «A Maria. È vero che siamo tutti malvagi, ma non ne godiamo, siamo tanto infelici» (338). Il nodo che lega peccato (la malvagità) e infelicità è, invero, molto stretto in questi nudi lacerti.
Alla luce, dunque, di tali, oggettivi dati testuali risalta chiaramente, da un lato, una radicale svolta nella vita e nell’opera di Leopardi, molto più profonda e concreta di quanto non faccia immaginare la famosa «conversione filosofica» e, dall’altro, la coscienza netta, da parte del poeta, del salutare crollo, in quel 1819, degli ostacoli letterari, filosofici, religiosi – dati come insormontabili nella cultura paterna –, che lo tenevano lontano dalla modernità e dalla realtà, insieme con uno stato di entusiasmo intellettuale e creativo notevolissimo, non disgiunto, peraltro, da un certo scoramento: «divenni filosofo», dichiara in un pensiero dello Zibaldone del 2 luglio 1820, nel quale sembra fare un consuntivo della sua esperienza “romantica”[13].
Una situazione prenietzschiana, dunque, nella quale la realtà, l’essere (se si vuole), crollati i dogmi e i filtri dell’assolutismo ideologico, appariva al genio di Recanati, per la prima volta nel mondo moderno (!), nella sua nudità antimetafisica, come «infinito», cioè «indefinito», luogo libero dai confini, dagli steccati, dai filtri imposti dal potere, ma fuorvianti e decisamente non necessari.
Era questa la conclusione cui lo scrivente, che si scusa per l’autocitazione, era, invero, giunto nella sua precedente ricerca[14]:
[…] l’infinito leopardiano non è il nulla materialistico o nichilistico, né tampoco l’infinito assoluto cioè il Dio della religione cristiana, come ipotizza Giuseppe Savoca, in un denso, interessantissimo saggio[15], ma il territorio «indefinito» in cui il poeta giovanissimo approdò con piacere (dopo lo sgomento iniziale), nel settembre del diciannove, dopo avere saltato gli steccati (già prospettatigli come invalicabili dal padre e dai maestri) della più rigida poetica classicistica e del più ottuso clericalismo papalino. Quanto dire che lo sgomento («ove per poco / il cor non si spaura») e il piacere del naufragio («il naufragar m’è dolce»), motivi centrali nell’Infinito, sono da collegare alla scoperta, da parte del poeta, che il mondo, la natura, l’uomo, la letteratura, i sentimenti, la religione non sono affatto riducibili dentro i confini del classicismo-misoneismo papalino in cui i suoi primi maestri, definendoli e normalizzandoli, cercavano di comprimerli: scoperta, davvero prenietzschiana, fatta «di salto», […] dal poeta, tra la fine del 1818 e l’inizio del 1819.
Ma questo approdo prenietzschiano postulava ovviamente la necessità di rileggere l’idillio in oggetto alla luce delle nuove acquisizioni, ancorché la prorompente novità dello stesso fosse implicita in quel denso saggio. Fu l’«inatteso collegamento» con «una
acutissima notazione di Luigi Blasucci» (ved. supra) a rendere urgente l’esplicitazione di quanto si era dato per scontato.
Vale a stento la pena di ricordare che il Blasucci, nel famoso saggio Leopardi e i segnali dell’infinito aveva individuato, sulla scorta di Tilgher, un «processo narrativo» all’interno del celeberrimo idillio leopardiano[16], ma aveva lasciato cadere nel vuoto una sua notazione, registrata nel primo dei dodici Paragrafi sull’«Infinito», che ne costituiscono il capitolo quarto: «Si determina così all’interno della lirica un vero e proprio scarto tra l’incipit familiare e consuetudinario e l’esperienza “eccezionale e suprema” che si inscrive nella cornice di quella consuetudine»[17]. Tale notazione ha, invero, propiziato l’«inatteso collegamento» con la conclusione prenietzschiana delle precedenti ricerche di chi scrive: non è, d’altra parte, la critica, anche metacritica?
Certo, il saggio di Blasucci, come tutti quelli che aggiungono conoscenze al già detto, approfondisce ulteriormente – e giammai chiude – l’indagine sul testo; mentre cerca, in ispecie, di rispondere alle domande che il testo pone, ne stimola altre, a sua volta: se c’è, dunque, un «processo narrativo» nella strutturazione dell’Infinito e se c’è uno «scarto» tra l’incipit familiare e «l’esperienza eccezionale e suprema» che vi si registra, che tipo di narrazione è quella dell’idillio leopardiano? O, in altri termini, di che cosa è narrazione l’Infinito? È solo «la narrazione di un processo spirituale», come voleva Tilgher[18], seguito da Blasucci? Ammesso, poi, che di questo si tratti, da che cosa (e in quale particolare contesto situazionale, culturale) è stato causato tale «processo spirituale»?
Blasucci ricostruisce, invero, la fase genetica del componimento, restando, come si deve, sul terreno testuale e rintracciandone, con acume filologico, i prodromi nelle pagine dello Zibaldone e in altri scritti del Recanatese, senza derogare tuttavia dalla sua linea d’indagine decisamente e magistralmente descrittiva. Alla fine, l’idillio gli appare giustamente contrassegnato, sul piano tematico dalla scoperta, da parte del poeta, dell’infinito spazio-temporale (con i portati della paura iniziale e della felicità finale) e, sul piano formale, da un ricco insieme di «soluzioni espressive» aperte verso il futuro della poesia leopardiana.
Non si pone, in effetti, l’illustre critico, alcuna domanda sul tempo in cui e sul motivo per cui, «sedendo e mirando», egli abbia scoperto (non certo, per intervento dello Spirito Santo), in un giorno del 1819, a ventuno anni, «l’infinito spaziale» e «l’infinto temporale», con tutto ciò che ne consegue.
Si è che Blasucci decontestualizza di fatto la composizione dell’Infinito, considerando di tipo «iterativo» e non «singolativo» (Genette) la narrazione del processo interiore presente nell’idillio, asserendo quindi che «tutti i verbi al presente della lirica […] saranno da intendersi come presenti iterativi: ‘sono solito fingermi nel pensiero’, ‘sono solito andare comparando ecc.» e attenuando la «portata avversativa» del «Ma» del verso 4, nonché il senso pregnante dell’avverbio iniziale («Sempre») e dell’iniziale, unico verbo al passato remoto («fu»)[19].
Si tratterrebbe, in altri termini, di una sorta di racconto atemporale (scritto al tempo presente, con un solo, innocuo ricorso al passato remoto, ma praticamente senza un prima e un dopo) e irenico, quasi paradisiaco, lineare (senza alcuna avversione-diversione), con un solo protagonista (l’io poetante) e senza antagonista alcuno. Leopardi, insomma, sarebbe stato solito fingersi «nel pensiero» («interminati / spazi», «sovrumani / silenzi, e profondissima quiete») e andare «comparando» «quello / infinito silenzio a questa voce», sempre e ripetutamente, a prescindere da ogni particolare, singolo evento e momento della sua vita, dacché, alla fine, «ciò che si narra nel testo è la rivelazione dell’infinito, sia pure nella finzione del pensiero». Quanto dire un’avventura spirituale fuori da ogni condizionamento esterno: mentale per l’appunto.
Ma le ricerche di chi scrive dimostrano ampiamente che uno «scarto» effettivo e concreto ci fu nella vita di Giacomo Leopardi in quell’anno eccezionale: il Contino aveva, infatti, consapevolmente scavalcato – vale la pena di ribadirlo – lo steccato che divideva, per i classicisti, la poesia degli antichi dalla poesia romantica, scrivendo una canzone («censurata» dal padre) ultraromantica e dichiarandosi quindi ugualmente distante dalle due scuole, e aveva altresì superato il veto che la rigida morale papalino-monaldesca opponeva all’amore fuori dal matrimonio (e alla sua rappresentazione letteraria), confermando tale scelta nella Telesilla.
Ne discende, quasi automaticamente, che la narrazione dell’Infinito è, a tutti gli effetti, di tipo propriamente «singolativo», che il «Ma» iniziale del quarto verso conserva tutta la sua «portata avversativa», che i verbi al tempo presente non sono affatto «iterativi», che il «Sempre» e il «fu» non scolorano nella «prospettiva di una durata indefinita», ma mantengono la loro inequivocabile, salda dimensione temporale. Ci sono, in altri termini, fondati motivi per ritenere che il «processo narrativo» individuato da Tilgher e approfondito da Blasucci, sia efficacemente operativo nel famosissimo idillio, che cioè la diacronia passato–presente e il distacco dal passato (papalino, classicistico, antiromantico) ne costruiscano gli effettivi – e finora elusi – nuclei genetici.
Al di là di ogni delimitazione di “genere letterario”, l’Infinito, potrebbe invero configurarsi come il più secco, breve «romanzo» (Marchese) della letteratura mondiale con una sua innegabile linea diacronica – la «durata» connota il romanzo, secondo Moravia –, costituita, secondo norma, da un incipit euforico («Sempre caro»), da un «oppositore» disforico («ove per poco il cor non si spaura») e da un explicit euforico («m’è dolce»).
In questa prospettiva, il «colle» e la «siepe», pur conservando tutta la loro pregnanza realistico-sentimentale, si configurano – per evidente, marcata ipersemantizzazione – come metafore: ardite, sublimi metafore, invero, della casa e della cultura monaldesca (papalina, classicistica, antilluministica, antiromantica, antifrancese), che fu sempre cara a Giacomo Leopardi prima del 1819, impedendogli, però, letteralmente, «il guardo» «dell’ultimo orizzonte» cioè della realtà esterna. Ma, dopo aver scritto, tra l’altro, le due «canzoni censurate» e l’abbozzo della Telesilla, abbandonando i confini netti, rigidi, nettamente definiti della poetica, dell’etica e dell’assiologia cattolico-classicistica e ritrovandosi in un terreno, per lui vergine, “altro”, privo di limiti e di confini, provò dapprima, «sedendo e mirando», lo smarrimento («[…] ove per poco / il cor non si spaura») dell’«indefinito» spaziale e temporale e quindi il piacere del naufragio nel vasto mare dell’essere senza limiti, indefinito («il naufragar m’è dolce in questo mare»).
Letto, quindi, alla luce di questo innegabile, ricostruito contesto, l’Infinito torna ad essere, dopo duecento anni, l’entusiastico «canto di liberazione» di un giovane poeta che ha scavalcato «di salto» (Zib. 102) le strettoie dell’asfittica cultura classicistica e papalina (metaforizzata nel «colle» e dalla «siepe» di Recanati) in cui era vissuto, giungendo, dopo un attimo di smarrimento («ove per poco // il cor non si spaura»), all’appercezione gioiosa dell’essere come «infinito» spazio-temporale, cioè – per dichiarazione del poeta stesso – «indefinito», non limitato, insomma, da steccati ideologici, estetici o religiosi («e il naufragar m’è dolce in questo mare»).[20] E ciò, quasi cent’anni prima di Nietzsche.
Ove si ponga, poi, mente al fatto che il Recanatese redasse («con molta probabilità» nell’aprile del ’19) il pensiero di Zibaldone, 50-51 e, probabilmente nel giugno dello stesso anno, il secondo degli Argomenti di idilli – due testi che vanno assunti come l’avantesto dell’Infinito –, si deve dedurre che il superamento dell’ottica familiare e lo sconfinamento in un territorio sconosciuto, indefinito, si saldò miracolosamente, nel corso della testura, con la scoperta simultanea, dell’indefinito spaziale per via visiva (già esperita nel secondo degli Argomenti di idilli)[21] e dell’indefinito temporale, per via uditiva (come in Zibaldone, 50-51)[22].
La fusione di tali componenti, apparentemente eterogenei, in una omogenea cifra stilistica fu, peraltro, propiziata dal sapiente riuso, da parte del poeta, di termini, concetti, immagini, presenti nella letteratura settecentesca, orientata verso la poetica del sublime[23].
Da qui inizia – sia detto senza retorica – la storia della poesia leopardiana. Una poesia che ancora invade il mondo, come quella che ha inaugurato, nei modi del «pensiero poetante», una delle vie maestre della lirica moderna e del sapere moderno, ampliando la conoscenza del mondo e dell’uomo nel mondo.
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[1] Cfr. G. LEOPARDI, Zibaldone di pensieri, Edizione critica e annotata a cura di G. Pacella, Garzanti, Milano 1991, I, p. 70 (vi si rimanda nelle citazioni zibaldoniane che seguono).
[2] Cfr. E. GHIDETTI, Note ai testi, in G. LEOPARDI, Tutte le opere, con introduzione e note di W. Binni, con la collaborazione di E. Ghidetti, Sansoni Editore, Firenze 1983, p. 1426 (sono di Ghidetti le datazioni di opere e abbozzi leopardiani, indicate in questo paragrafo). Si rimanda a detta edizione nelle citazioni (di opere leopardiane) che seguono.
[3] Cfr. LEOPARDI, Tutte le opere, cit., p. 937.
[4] W. BINNI, Leopardi poeta delle generose illusioni e della eroica persuasione, in G. LEOPARDI, Tutte le opere, cit., osserva (pp. XXXIV-XXXV, nota 3): «II Leopardi in quel periodo mirava ad adeguarsi al metodo dei classici e a distinguersi da quello dei classicisti mitologici trattando argomenti del proprio tempo e non di quello degli “antenati” […]. In realtà tale metodo lo portava molto vicino proprio a quel patetico persino “feroce” da lui deprecato nei romantici nel Discorso di un italiano. Conferma, questa, di un’inevitabile attrazione del gusto stesso che il Leopardi combatteva in sede polemica».
[5] Secondo GHIDETTI, Note ai testi, cit., p. 1426, il diario e la canzone furono composti immediatamente «dopo la visita compiuta ai Leopardi dalla cugina Gertrude Cassi, tra l’11 2 il 14 dicembre 1817».
[6] LEOPARDI, Tutte le opere, cit., p. 349. L’abbozzo «risale all’estate-autunno del 1819», secondo E. Ghidetti.,ivi, p. 1445. Sulla Telesilla, si veda A. MONTEVERDI, Frammenti critici leopardiani, Napoli, Edizioni Scientifiche Italiane, 1967, pp. 25-47; M. VITALE, La coscienza della slealtà (a proposito del dramma «Telesilla» di Giacomo Leopardi), in Humanitas… sparse vestigia, Cagliari, Ed. Sarda Fossataro, 1974, pp. 99-108; G. SAVARESE, Un dramma “in fieri”: gli appunti per la «Telesilla», in L’eremita osservatore, cit., pp. 285-305.
[7] LEOPARDI, Tutte le opere, cit., p. 349.
[8] Ivi, p. 347. Il punto fermo dopo «innocente» manca nel testo.
[9] Cfr. RANDO, Nei pressi …, cit., 67-82.
[10] Cfr. LEOPARDI, Tutte Le opere, cit. pp. 335-336; RANDO, Giacomo Leopardi: il «salto» …, cit. p. 61.
[11] Vale a stento la pena di ricordare la testimonianza diretta di Moraldo Leopardi, che nella «lettera memoriale» a Ranieri ricorda come nel 1812 il quattordicenne Giacomo, in preda a scrupoli religiosi, «temeva di camminare per non mettere il piede sopra la croce nella congiunzione dei mattoni».
[12] Sugli Inni cristiani si va stratificando una ricca letteratura critica: si rinvia, fra gli altri, a G. GETTO, Gli inni cristiani, in Saggi leopardiani, Firenze, Vallecchi, 1966, pp. 52-57; C. DOMINICI, Riflessioni sull’abbozzo multiplo degli «Inni cristiani», in AA. V., Le città di Giacomo Leopardi, Atti del VII Convegno internazionale di studi leopardiani (Recanati 16-19 novembre 1987), Firenze, Olschki, 1991, pp. 237-243; Gli «Inni cristiani» di Giacomo Leopardi, Abano Terme, Francisci, 1991.
[13] Cfr. LEOPARDI, Zibaldone di pensieri, cit. p. 147 [144]
[14] RANDO, Giacomo Leopardi: il «salto» dell’Infinito, in «Studi sul Settecento e l’Ottocento. Rivista internazionale di italianistica», XIII (2018), pp. 49-69.
[15] G. SAVOCA, L’estasi dell’Infinito, in ID., Leopardi. Profilo e Studi, Leo S. Olschki Editore, Firenze 2009, pp. 23 ss.
[16] Si veda L: BLASUCCI, Leopardi e i segnali dell’infinito, Il Mulino, Bologna 1985, p. 121.
[17] Ivi, pp. 97-98.
[18] Si veda A. TILGHER; La filosofia di Leopardi, Edizioni di Religio, Roma 1940, p.49.
[19] Cfr: BLASUCCI, I segnali …, cit., pp. 97-101.
[20] A nessuno sfugge, peraltro, la prossimità del costrutto ossimorico «naufragar […] dolce» a quello del «peccar quasi innocente» di Telesilla: sperimentava, invero, in quell’anno, il Contino, aspetti contraddittori dell’esistenza, alternativi alla linearità della ideologia cattolico-classicistica.
[21] Vi si legge. «Galline che tornano spontaneamente la sera alla loro stanza al coperto. Passero solitario. Campagna in gran declivio veduta alquanti passi in lontano, e villani che scendono per essa si perdono tosto di vista, altra immagine dell’infinito» .(LEOPARDI; Tutte le opere, I, cit, p.336).
[22] Vi si legge: «Dolor mio nel sentire a tarda notte seguente al giorno di qualche festa il canto notturno de’ villani passeggeri. Infinità del passato che mi veniva in mente, ripensando ai Romani così caduti dopo tanto romore e ai tanti avvenimenti ora passati ch’io paragonava dolorosamente con quella profonda quiete e silenzio della notte, a farmi avvedere del quale giovava il risalto di quella voce o canto villanesco» (Zib. 50-51). Sui due testi, ci sia concesso di rinviare a RANDO, Giacomo Leopardi: il «salto» …, cit., pp. 60-61.
[23] Cfr. R. GAETANO, Leopardi e l’infinito. Un breviario del sublime, Pellegrini Editore, Cosenza 2019.