Il contributo immateriale delle piante all’avanzamento della civiltà.
In tutte le culture e in ogni epoca la vita dell’uomo si è intrecciata indissolubilmente, tanto sul piano materiale quanto su quello simbolico, alla vita delle piante, sia singolarmente considerate, sia fra loro aggregate a formare prati, siepi, macchie, foreste.
Oltre al sostentamento e agli altri benefici tangibili che da sempre hanno assicurato al genere umano (vedi mia nota del 6 maggio 2023 apparsa su questo stesso sito), esse sono anche servite a concepire e trasmettere idee fondamentali sull’origine della vita e sue varie manifestazioni, chiamando in causa aspetti religiosi, magici, scaramantici, rituali, artistici, filosofici, poetico-letterari. Con incursioni in campi insospettabili come l’architettura, l’ingegneria, la genetica, la chimica, la climatologia, fino a coinvolgere da ultimo la psicologia, l’economia, l’organizzazione sociale, la politica. Un campo sterminato, come si vede, che un trattato non basterebbe a sondare come dovuto. È giocoforza, pertanto, doversi accontentare di pochi cenni soltanto, quasi fossero l’intestazione di altrettanti capitoli.
Affascinato e intimorito al tempo stesso dalla straordinaria longevità di alcuni alberi (tanto da ritenerli eterni), dalle dimensioni smisurate dei loro tronchi (quando ancora mancavano i moderni mezzi per abbatterli) e dalla maestosità delle chiome che sfidavano il cielo, l’uomo ha finito per attribuire ad essi caratteri di sacralità, ora divinizzandoli, ora immaginandoli dimora di esseri divini, ora considerandoli addirittura i suoi lontani progenitori.
L’albero cosmico, oggetto di culto nelle civiltà preelleniche, tanto nordiche che orientali, viene concepito come entità capace di connettere gli inferi, esplorati in profondità dalle radici, la superficie terrestre, rappresentata dal fusto, e il cielo verso cui si proietta la chioma. Seguiranno poi l’albero della conoscenza e della vita che cresce nel Giardino dell’Eden, l’albero di Jesse (padre di Davide), l’albero di Giuda, l’albero delle libertà (rivoluzione francese), l’albero genealogico, l’albero di Natale, l’albero della cuccagna, l’albero di Pirandello, l’albero di Falcone…
Nella mitologia greco-romana, numerose sono le specie dedicate al culto di divinità: la quercia è sacra a Zeus, l’olivo ad Atena, il mirto ad Afrodite, il cipresso a Plutone, la vite a Dioniso, il salice ad Osiride, l’alloro ad Apollo. Il sicomoro, sacro ad Hator, è considerato nell’antico Egitto simbolo d’immortalità e del suo legno sono costituiti i sarcofagi destinati a sfidare i secoli. Presso i Celti e i Germani, oltre alla quercia, simbolo di potere e di saggezza, sono piante sacre il frassino, la betulla, l’agrifoglio, il nocciolo, il biancospino, il sambuco, il vischio e tante altre ancora: ognuna con poteri soprannaturali specifici. Buddha, secondo la tradizione indiana, avrebbe avuto l’illuminazione sotto un Ficus religiosa, dove si era addormentato. Plinio il Vecchio ricorda che al tempo degli antichi Romani gli alberi vetusti erano equiparati a templi veri e propri e che sacre erano ritenute le foreste cresciute nelle vicinanze degli abitati. Ancora in epoca medievale, le deliberazioni più importanti (incoronazioni, dichiarazioni di guerra, trattati di pace, accordi commerciali, ecc.) venivano siglate sotto alberi annosi, quasi a volerli coinvolgere in qualità di testimoni e garanti.
Al mondo vegetale la religione cristiana attinge a piene mani, tanto che le piante citate nel Vecchio e Nuovo Testamento sono servite a ricostruire la flora e il regime alimentare propri dei paesi mediterranei di un tempo. A partire dall’albero del bene e del male (un melo?) dal quale Adamo ed Eva avrebbero tratto il frutto proibito che li ha privati dell’immortalità. Per passare alla vite, simbolo di benessere e di fecondità, alla quale si paragona lo stesso Gesù; alle melagrane effigiate nei capitelli bronzei del Tempio di Salomone; al rametto d’ulivo recato in bocca dalla colomba messaggera annunciante a Noè la fine del diluvio universale; all’incenso e alla mirra portate in dono al Bambinello dai Re Magi; alle fronde di palma sventolate dalla folla festante che acclama l’ingresso trionfale di Gesù a Gerusalemme; alle ghiande di cui si nutre il figliol prodigo al posto delle carrube che gli sono negate; al chicco di grano che, sotterrato in autunno, riesce a germogliare e dare i propri frutti in primavera (simbologia della morte e della resurrezione).
Molteplici sono le piante riprodotte su monete, banconote, gonfaloni, stemmi araldici, bandiere nazionali, a rimarcare le fortune economiche assicurate a famiglie altolocate, Comuni e Stati (si veda, ad esempio, il cedro sulla bandiera del Libano, la foglia d’acero in quella del Canada, i rametti d’ulivo sul vessillo di Cipro). Per non parlare dei grappoli d’uva e delle spighe di grano ricorrenti in monete antiche e moderne, da quelle della Grecia classica fino alle lire italiane di pochi anni fa. Nell’ode Al corbezzolo, la pianta della macchia mediterranea recante in contemporanea i fiori bianchi dell’anno, i frutti rossi dell’anno precedente e le foglie sempreverdi, Giovanni Pascoli individua il simbolo del suolo italico
Che dire, poi, delle piante in letteratura? A volere citare qualche esempio, c’è l’imbarazzo della scelta. Si può partire da Omero ed Esiodo per giungere a scrittori moderni come Manzoni e Ungaretti, passando per Ovidio, Virgilio, Lucrezio, Plinio il Vecchio, Dante, Petrarca, Ariosto. Su una grande ceppaia d’ulivo costruisce Ulisse il talamo nuziale ad Itaca, rivelatore della sua reale identità agli occhi dell’incredula Penelope; all’ombra di un grande platano, sulle fresche rive di un ruscelletto, Socrate e Fedro disquisiscono piacevolmente di amore e retorica in un celebre dialogo platonico; ferito a morte a Roncisvalle, il prode Orlando attende la sua fine disteso sotto un pino, con lo sguardo rivolto verso il nemico in segno di sfida. Celebri sono diventati i cipressi del Foscolo, la quercia caduta di Pascoli, il verde melograno di Carducci, la ginestra odorosa di Leopardi. Le metamorfosi di Ovidio pullulano di piante e fiori, presentati ogni volta sotto luce e significati diversi. Tra le specie che vi figurano, le più famose restano certamente il narciso, simbolo di egocentrismo sfrenato, e l’alloro, l’albero in cui Dafne si trasforma per sfuggire alle mire di Apollo: mito, questo, immortalato nello splendido gruppo scultoreo di Gian Lorenzo Bernini.
Di boschi, selve e foreste, oltreché di piante singole, sono piene le opere letterarie di tutti i tempi, ora riguardati come entità positive e dispensatrici di beni e servigi, ora come allegorie di pericolo, mistero e intrigo, popolati come sono, nell’immaginario collettivo, di principi e principesse, cavalieri erranti e briganti, fate e streghe, satiri, gnomi, orchi, fauni, elfi, sileni, lupi, orsi, centauri. Inoltrarsi in una foresta può significare respirare aria salubre a pieni polmoni, assaporare la frescura nella calura estiva, avvertire il senso di pace e di benessere indotto dalla penombra e dal silenzio. Ma implica la possibilità, altresì, di smarrirsi, fare brutti incontri, impigliarsi, ferirsi, venire sorpresi dal buio fitto, gridare invano per chiedere aiuto.
Nell‘isolamento del bosco, monaci, eremiti ed asceti trovano il luogo ideale per ricercare la pace interiore e il senso autentico dell’esistenza. Nelle selve intricate e piene d’insidie, i protagonisti di fiabe e gli eroi della letteratura cavalleresca medievale sono messi alla prova, per giungere all‘affermazione personale in campo sociale, economico o sentimentale. Al tempo in cui i popoli si dibattono nella miseria e nelle privazioni, si favoleggia di tesori smisurati celati nei boschi, da scoprire attraverso impossibili atti di coraggio e l’improbabile svelamento di arcani incantesimi.
In una selva oscura Dante intraprende il suo viaggio ultraterreno che lo porterà alla redenzione; all’interno di una foresta Polífilo, protagonista del romanzo allegorico di anonimo, compirà il viaggio immaginario verso l‘amore platonico. I boschi fanno da palcoscenico nel Cappuccetto rosso di Perrault, in molte fiabe dei Fratelli Grimm, nell’Orlando Furioso di Ariosto, nel Sogno di una notte di mezza estate di Shakespeare.
Non meno importanti sono i vegetali nell’arte figurativa, utilizzati non solo a fini estetici e di contorno, ma per esprimere anche sentimenti e stati emotivi. Si pensi al tripudio di piante e fiori nella Primavera di Botticelli, ai papaveri di Monet, ai girasoli di Van Gogh, alla natura morta di Caravaggio, alle piante contorte ne La libecciata di Fattori, a L’angelo della vita di Segantini, ai ciliegi fioriti impressi su stoffe, stampe, ventagli e paraventi della migliore pittura giapponese.
Per chi ha dimestichezza con le foreste secolari di conifere sarà facile comprendere com’esse siano servite da modello nel concepimento delle cattedrali cristiane, specie di quelle gotiche, dove le colonne altissime delle navate riproducono i fusti diritti e senza rami di abeti e larici, i capitelli corinzi con foglie di acanto la chioma che regge le volte, le luci diffuse filtranti dalle vetrate i raggi solari che si fanno strada a fatica attraverso le fronde delle piante. Stessa frescura, stesso silenzio, stesso senso di arcano mistero.
Niente affatto trascurabile è da considerare il contributo del mondo vegetale all’avanzamento del progresso scientifico. Gregor Mendel, padre della genetica moderna, poté desumere le leggi sulla trasmissione dei caratteri ereditari dai celebri esperimenti su piselli verdi e gialli, a semi lisci e rugosi. Melvin Calvin, premio Nobel per la chimica nel 1961, disvelò i meccanismi che presiedono alla sintesi clorofilliana lavorando su una modesta alga monocellulare (Chlorella). Lo studio della fillotassi (disposizione delle foglie attorno al ramo), iniziato da Aristotele e proseguito da Leonardo e Keplero fino ai botanici moderni, ha fatto comprendere come disporre diversi corpi vicini (ad esempio i fabbricati di un centro abitato) così da assicurare loro il massimo di illuminazione relativa. L’osservazione accurata delle piante cresciute in ambienti differenti (oltreché degli animali) ha consentito a Darwin l’enunciazione della teoria evoluzionistica. Dal papiro sono stati ottenuti i primi fogli di carta come oggi li conosciamo. C’è chi ipotizza perfino che gli anelli concentrici dei tronchi abbiano suggerito l’idea della ruota e del suo asse di rotazione.
In campo ingegneristico si possono richiamare diversi casi. Ricordo, ad esempio, che l’incastro ai muri delle travi in cemento armato riprende l’innesto rafforzato delle grosse branche orizzontali ai tronchi; che al fusto cavo delle graminacee si ispirano le più moderne palificazioni; che i fasci tenaci di fibre vegetali sono riprodotti fedelmente nelle nostre funi d’acciaio.
Dai fiori abbiamo preso in prestito tanti nomi propri, specialmente femminili: Altea, Camelia, Erica, Fiorenza, Flora, Florinda, Gigliola, Jasmine (gelsomino), Margherita, Melissa, Rosa, Silvana, Silvia, Silvestro, Viola. A diverse piante risultano intestate in Italia centinaia di città, dislocate in prevalenza al centro-nord, in cui figurano in prevalenza le specie quercine, seguite in ordine di frequenza da carpino, pino, sorbo, castagno, olmo, frassino, ginestra, pero, pesco. In Sicilia (basta guardare all’etimologia dei loro nomi e senza considerare i villaggi) si contano i centri abitati di Calamonaci, Palma di Montechiaro, Ravanusa, S. Biagio Platani (provincia di Agrigento), Acquaviva Platani, Delia, Milena e Niscemi (Caltanissetta), Mazzarrone, Milo, Scordia, Trecastagni e Zafferana Etnea (Catania), Castell’Umberto, Ficarra, Frazzanò, Gualtieri Sicaminò, Malvagna, Militello Rosmarino, Mirto, Mongiuffi Melia, Olivieri, Piraino, Rodì Milici, Saponara e Savoca (Messina), Altavilla Milicia, Caccamo, Ficarazzi, Pioppo, Sciara e Valledolmo (Palermo), Giarratana (Ragusa), Ferla (Siracusa), Custonaci (Trapani).
A piante e frutti fanno capo aforismi e modi di dire d’uso comune: non c’è rosa senza spine, tremare come una foglia, cadere come pera matura, crescere diritti come un pioppo; essere forti come una quercia, freschi come le rose, sballottati come canne al vento (le stesse del celebre romanzo di Grazia Deledda); piegarsi come giunchi sotto la piena, sbocciare come un fiore, attaccarsi come l’edera, comportarsi da narciso. E ancora: essere ben piantati, discendere da stirpe nobile, vantare lignaggio illustre, derivare da ceppo antico, appartenere a un ramo cadetto.
Fiori e piante, col loro linguaggio convenzionale, commentano i momenti topici della nostra esistenza, tristi o allegri che siano: nascite, battesimi, cresime, fidanzamenti, matrimoni, lauree, funerali, inaugurazioni, celebrazioni varie. Attraverso di essi esterniamo passione, gelosia, coraggio, desideri. Chiome sempreverdi a forma di cono allungato, tipo cipresso, esprimono speranza nella resurrezione e nella vita eterna; chiome pendule, tipo salice piangente, rivelano tristezza e melanconia. I fiori gialli erano un tempo banditi nell’impero britannico, in quanto il colore veniva associato alla vigliaccheria.
Studi recenti, fatti propri anche dall’ONU durante la recente pandemia da Covid-19, hanno riconosciuto al verde cittadino e alle foreste una miriade di benefici nel campo della salute fisica e mentale dell’uomo, come la facoltà di combattere la depressione e lo stress, abbassare la pressione sanguigna e i battiti cardiaci, prevenire le malattie infettive e cardiovascolari, accelerare la guarigione in caso di malattie, contrastare l’aggressività giovanile.
Dalle piante possiamo imparare a risparmiare acqua, imitare il mutualismo e la cooperazione, desumere l’auspicata economia circolare, abbattere la produzione di rifiuti. Perfino in campo politico ed economico-sociale possiamo trarre qualche insegnamento dal mondo vegetale. Tenuto conto, infatti, che la singola pianta è assimilabile ad una comunità (basta considerare che l’individuo animale non è divisibile, salvo a provocarne la morte, al contrario di un organismo vegetale) essa ci indica come ripartire equamente tra i suoi componenti (radici, rami e foglie) tutto quando assunto e accumulato dall’ambiente circostante (acqua, elementi minerali, materiale di riserva), senza dare adito a disparità e ingiustizie. E come una società risulti tanto più stabile quanto più i centri decisionali siano distribuiti orizzontalmente, anziché concentrarsi in poche persone o in una soltanto. Basta pensare che le monarchie assolute e le dittature, in genere, si dissolvono celermente con la morte o la deposizione dell’uomo solo al comando.