L’Isola di Pasqua, dalla sua storia un monito per l’umanità

Cercando di mettere ordine in una pila di libri letti negli ultimi anni, mi sono imbattuto nel saggio del biologo e antropologo statunitense Jared Diamond, premio Pulitzer per la saggistica del 1998, dal titolo: Collasso. Come le società scelgono di morire o di vivere (Einaudi, 2005). In esso vengono vagliati in dettaglio i fattori di vario ordine e grado che avrebbero portato, di volta in volta, al crollo repentino e irreversibile di tante civiltà, di cui spesso ci capita di ammirare le rovine di opere grandiose che ci lasciano increduli. Scorrendo l’indice del libro mi sono soffermato su un caso, fra i tanti esaminati dall’Autore (Micenei, Anasazi, Maya, Incas, Vichinghi, ecc.), che a suo tempo mi aveva colpito particolarmente: la storia dell’Isola di Pasqua (Rapa Nui per i locali). Ho voluto rileggere il capitolo e, trovatolo interessante come ricordavo per gli insegnamenti che se ne possono trarre, mi sono deciso a stendere questa nota a beneficio di coloro che il libro non l’hanno letto, cercando di estrarre dalle dense 45 pagine gli spunti più significativi.

L’isola in questione, così detta perché scoperta il giorno di Pasqua del 1722 dall’esploratore olandese Jacob Roggeveen dopo 17 giorni di navigazione, è considerata il luogo abitabile più isolato al mondo, un puntino a stento percepibile nell’immenso Oceano Pacifico (appena 171 chilometri quadrati di superficie, ancor meno, per rendere l’idea, del territorio di Messina), distante 3.700 chilometri dalle coste cilene, ad Est, e 2.100 chilometri dalla più vicina isola polinesiana, a Ovest. 

Agli occhi di Roggeveen e degli esploratori giunti dopo di lui, tra cui il celebre capitano britannico Cook, l’isola apparve subito arida e quasi deserta, punteggiata soltanto da pochi cespugli non più alti di 3 metri e abitata da qualche centinaio di autoctoni d’origine polinesiana. Nessuna specie di uccello stanziale o di animale terrestre, se non ratti e polli d’allevamento. Nessun pesce commestibile presente nelle acque basse vicino alla costa. A corredo della popolazione, poche canoe di modesta dimensione, incapaci di affrontare il mare aperto.

Nulla di eccezionale, verrebbe da dire: tante altre terre emerse del nostro pianeta corrispondono a tale descrizione, e anche di peggio. Vero, se non fosse per la presenza di quelle 900 statue gigantesche di pietra lavica, i celebri moai per cui l’Isola è nota in tutto il mondo, disseminate sul suo territorio, dal livello del mare fino alla cave in cui venivano scolpite, tre vecchi crateri vulcanici siti ai vertici dell’Isola, il maggiore dei quali alto 509 metri e largo 550. Statue che misurano dai 2 ai 10 metri di altezza e anche oltre, fino a un esemplare di 21 metri rimasto in sito appena abbozzato (un palazzo di 7 piani!), pesanti dalle 10 alle 270 tonnellate. La metà di esse giacenti a terra, crollate per cause naturali o per mano dell’uomo, le rimanenti rimaste incomplete entro i crateri, come le colonne presso le Cave di Cusa, in territorio di Campobello di Mazara, destinate ai grandiosi templi greci di Agrigento. 

Chi ha costruito quelle statue ciclopiche e le relative piattaforme, forse ancora più imponenti, su cui erano erette? Con quali tecniche e attrezzature? A che scopo? 

Scartate le ipotesi fantasiose di qualche eccentrico Autore (tra cui quella di un intervento extraterrestre), gli studiosi e i ricercatori di varie discipline che per anni si sono applicati all’argomento hanno concluso, pressoché unanimemente, che quando i primi uomini vi posero piede (intorno al 900 d. C.), l’Isola era coperta da foreste, e che per alcuni secoli essa era stata capace di assicurare cibo in abbondanza attraverso la pesca, l’agricoltura, l’allevamento di animali domestici (maiali e polli) e una discreta fauna selvatica, tanto da potere sostentare, nel periodo di massimo splendore, fino a 15.000 abitanti e forse più. La popolazione sarebbe stata suddivisa in 11-12 clan, stanziati su altrettante porzioni dell’Isola che dalla costa si spingevano fino alle vette maggiori, come le fette a raggiera di una torta, ciò al fine di consentire a ciascuno di essi di attingere ai beni disponibili, dislocati difformemente sull’Isola. 

Sarebbero stati gli alberi d’alto fusto a fornire i tronchi con cui costruire slitte, binari e rulli sui quali movimentare quelle pesantissime statue per diversi chilometri, oltre al materiale occorrente a costruire imbarcazioni e capanne, difendersi dal freddo, cuocere le vivande, perfino praticare la cremazione; le cortecce di alcune specie avrebbero fornito le fibre con cui intrecciare le lunghe e robuste funi necessarie a tirare le statue a valle e rizzarle in piedi sui poderosi piedistalli già predisposti; le diverse migliaia di uomini la forza muscolare indispensabile, in mancanza dei moderni mezzi meccanici, a confezionare le statue, trasportarle a valle lungo percorsi anche accidentati e metterle in asse nelle postazioni prescelte, oltre a svolgere le normali attività agricole e dedicarsi alla pesca.

Le motivazioni che stanno alla base di tanta fatica e tanto spreco di risorse sono le stesse che hanno indotto altri popoli ad erigere le opere mastodontiche riscontrabili in ogni continente: ricordare antenati benemeriti, ingraziarsi il favore degli dei, ma soprattutto la volontà dei governanti di ostentare potenza e vessilli prestigiosi agli occhi dei sottoposti e dei concorrenti.

Una domanda, a questo  punto, è più che lecita: come si è riusciti, partendo dallo stato miserevole in cui versava l’Isola all’atto della sua scoperta, a ricostruire la situazione pregressa ipotizzata in precedenza? E con quale attendibilità? 

Nel merito l’Autore riporta i risultati di una lunga serie di ricerche scientifiche condotte per anni da sociologi, archeologi, antropologi, semiologi, botanici, zoologi, i cui nomi e nazionalità di provenienza ho scelto di omettere per rendere la lettura più agevole.

Dalla datazione con radiocarbonio degli strati di pollini prelevati, mediante la nota tecnica del carotaggio, dai sedimenti di paludi e lagune e dal confronto di essi con quelli di piante esistenti altrove, i botanici hanno potuto asseverare che sull’Isola, quando arrivarono i primi colonizzatori, vegetavano 21 specie arboree di grandi dimensioni, tra cui una palma capace di raggiungere i 30 metri di altezza e il metro di diametro. Gli zoologi, attraverso l’esame di oltre 6000 ossi di animali rinvenuti in antichi cumuli di rifiuti, hanno individuato la presenza di 6 specie di uccelli stanziali terrestri, 25 specie di uccelli marini, foche, tonni e delfini, tutti utilizzati nell’alimentazione umana. Alla netta prevalenza sugli altri animali dei delfini, pesci di notevole stazza catturabili lontano dalla costa, è stato attribuito un duplice significato: da un lato, che alla carenza di mammiferi e uccelli si sarebbe supplito intensificando la pesca; dall’altro, che per catturare pesci di così grossa taglia sarebbero occorse canoe di grandi dimensioni e attrezzature assai sofisticate. Quanto alla consistenza massima della popolazione isolana, essa è stata stimata censendo i resti delle case coeve (curiosamente, aventi la forma di una barca capovolta) e ipotizzando che ciascuna di esse accogliesse mediamente una decina di elementi. La divisione della stessa in clan è stata desunta sia dalla tradizione orale ancora in vita, sia dalle tracce di abitazioni più elaborate, tipo dimore regali, disposte vicino al mare, dove pure si riscontrano i terreni più fertili e i moai più imponenti.

Come si sia innescato il processo involutivo che nel volgere di qualche secolo avrebbe portato alla completa dissoluzione di una società così composita e alla totale distruzione del patrimonio naturale sottostante è presto detto. La necessità di sostentare una popolazione cresciuta a dismisura avrebbe costretto a spiantare progressivamente la foresta, fino alla sua estinzione totale, per far posto sempre più all’agricoltura che, al tempo stesso, avrebbe interessato terreni sempre meno vocati. Con l’aggravante che dalla stessa foresta, come visto prima, doveva anche trarsi l’ingente quantità di materiale legnoso impiegato nella gestione di quelle opere dispendiose di cui s’è detto, ancorché per niente indispensabili. La scomparsa del bosco, a sua volta, avrebbe innescato i fenomeni di dissesto idrogeologico che ben conosciamo e provocato i cambiamenti del clima locale dovuti, ad esempio, alla maggiore ventosità e al minore tasso di umidità. L’agricoltura intensiva, inoltre, avrebbe causato a lungo andare l’impoverimento minerale dei terreni coltivati e, per conseguenza, la riduzione della loro produttività. Per altro verso, l’eccesso di caccia e pesca avrebbe portato all’estinzione degli animali esistenti, tanto terrestri che marini.

Il concorso di questi processi avrebbe finito per provocare la rottura degli equilibri economico-sociali che avevano retto per secoli, durante i quali i clan avevano convissuto più o meno pacificamente, scambiandosi i prodotti in esubero e anche certi servigi (consentire, ad esempio, il passaggio delle statue altrui lungo i terreni di propria pertinenza). Gli stessi, al contrario, avrebbero iniziato a competere per l’accaparramento di beni sempre più limitati, finché i conflitti non sarebbero sfociati in guerre sanguinose e distruttive che, tra l’altro, avrebbero portato, per ritorsione contro le classi dominanti, all’abbattimento di quasi tutti i maoi. La penuria di cibo sarebbe giunta a tal punto da indurre al cannibalismo, pratica mai accertata prima. Per eccesso di sventura, la mancanza di materiale legnoso avrebbe precluso la possibilità di approntare imbarcazioni idonee ad affrontare l’oceano alla ricerca di nuove terre da colonizzare, ammesso che gli abitanti, vissuti in totale isolamento per circa un millennio, avessero coscienza di una tale soluzione. 

Prendendo per buona la ricostruzione sopra tratteggiata[1], è facile comprendere come dall’Isola di Pasqua, una società chiusa e autogestita confinata su un lembo di terra sperduto nel Pacifico, si levi per noi contemporanei un monito fortissimo. Diversamente da quanto è sostenibile nel caso di altre famose civiltà estinte, non sarebbe ipotizzabile nella fattispecie chiamare in causa cataclismi naturali o fattori umani esterni, come invasioni, saccheggi o crisi economico-commerciali, avendo agito sull’Isola fattori solamente autoctoni: l’incremento incontrollato della popolazione, l’imprevidenza, la mancanza di programmazione, il saccheggio delle risorse naturali, la competizione tra clan e capi rivali che avrebbero continuato a commissionare statue sempre più grandi, incuranti di dover prelevare dalla foresta più materiale di quanto i normali ritmi biologici fossero in grado di ripristinare. 

L’angoscia che coglie coloro che leggono il libro di Diamond scaturisce dal fatto che la storia dell’Isola di Pasqua rischia di assomigliare maledettamente a quella che potrebbe prospettarsi in futuro per il nostro pianeta. L’Isola di Pasqua, dunque, come metafora del globo intero, la parte per il tutto. 

Anche sulla Terra (questa sorta di navicella spaziale vagante nel vuoto cosmico col suo carico di esseri viventi), la popolazione sta crescendo in modo esponenziale (8 miliardi gli abitanti di oggi a fronte, ad esempio, di 1,7 miliardi di appena un secolo fa); anche noi consumiamo annualmente più di quanto il pianeta è in grado di produrre in pari tempo, così intaccando progressivamente il “capitale fruttante”, come quando si preleva oltre l’interesse generato dalla somma depositata in banca; anche noi, singoli o nazioni, siamo impegnati in una perenne competizione a consumare (e sprecare) di più, accumulare ricchezza non come mezzo ma come fine, vantare traguardi da record, ostentare simboli ambiti di potenza e orgoglio, mentre rumori di guerra risuonano sinistri anche dove, appena qualche anno addietro, era inimmaginabile. Senza nessuna possibilità di cambiare pianeta.


[1] Ricordo che tale ricostruzione è contestata da certi Autori, i quali tendono ad attribuire la situazione in cui versa l’Isola di Pasqua, in parte a supposti cambiamenti climatici pregressi, in parte a conquistatori europei e sudamericani giunti prima di Roggeveen, i quali avrebbero introdotto gravi malattie infettive per le quali ai nativi mancavano gli anticorpi, come il vaiolo, e ridotto in schiavitù gran parte della popolazione indigena sopravvissuta. Teorie, queste, confutate dallo stesso Diamond in quanto non suffragate, almeno finora, da ricerche scientifiche e da riscontri storici.

Credits:

Foto in evidenza di Alessandro Caproni