La scomparsa del quartiere di Terranova conseguenza della ribellione di Messina alla Spagna del 1674
Messina in un tempo di crisi politica, economica e sociale
L’economia siciliana nei primi anni del secolo XVII si regge prevalentemente sulla produzione del grano negli estesi latifondi (i feudi) del centro e dell’ovest dell’isola e della seta nei territori attorno alle città di Messina, Catania e Palermo. Messina controlla politicamente e amministrativamente un vasto comprensorio il “Distretto del Val Demone” esteso tra il fiume Alcantara a sud e la cittadina di Tindari a nordovest ed esercita una forte influenza commerciale oltre lo Stretto nei centri della Calabria meridionale. La città dello Stretto in quei decenni ha una elevata autonomia politica e commerciale grazie a franchigie, esenzioni e facilitazioni fiscali e amministrative di cui gode fin dal XIII secolo concesse dai sovrani in cambio di frequenti ingenti donativi e nel tempo mantenuti attraverso l’istituto giuridico della conferma da parte del sovrano. Essa si ritiene quasi una repubblica autonoma all’interno del Regno spagnolo. Il benessere economico di cui godono da tempo i messinesi è dovuto ai commerci, all’artigianato di lusso e all’attività portuale, scalo obbligato tra oriente e occidente e alle eccezionali opportunità di diverso genere offerte agli operatori commerciali stranieri che lo frequentano. Ma è soprattutto la produzione e l’esportazione della seta cruda e lavorata, che rappresenta oltre la metà di quanto si produce nell’intera isola, che porta benessere in città e nel suo ampio retroterra. La seta, per la sua complessa produzione dalla coltivazione delle piante di gelso e allevamento del baco da seta, alla lavorazione e tessitura del filato, vendita e trasporto marittimo in altri luoghi del Mediterraneo, dà lavoro in quegli anni con un attivo indotto, a buona parte della sua popolazione. Dal porto di Messina fin dal 1591, partono per l’Europa anche i prodotti serici provenienti dall’ampio territorio del triangolo Termini-Messina- Siracusa e dalla fascia costiera della Calabria arricchendo la cassa cittadina con i diritti portuali esatti. La favorevole congiuntura economica fino ai primi decenni del ‘600 consente alla città di raggiunge con i suoi borghi, una popolazione di circa 100.000 abitanti. Inoltrandosi la seconda parte del secolo XVII, le trasformazioni politiche e sociali che si succedono in Europa, coinvolgono i territori italiani della Spagna, la Sicilia e ovviamente Messina che si trova ormai al termine del suo plurisecolare positivo ciclo economico ed è ora obbligata ad affrontare i nuovi complessi e concomitanti problemi che deprimono la sua realtà sociale e offuscano la sua immagine di importante e prospera città mediterranea. Primo tra tutti la concorrenza della produzione serica dei vicini territori palermitano e catanese, non meno rilevante il danno determinato dal ridimensionamento da parte della Corona di Spagna delle sue esenzioni fiscali che fanno venir meno gli attrattori commerciali che rendevano vantaggioso l’approdo nel suo porto, e le conseguenze delle frequenti carestie soprattutto quella degli anni 1671-72. Altro fattore difficile da sostenere è la diminuzione del prezzo alla vendita della seta a fronte dell’aumento generalizzato del costo del grano che il territorio messinese non produce e pertanto deve necessariamente essere acquistato sul mercato. La città, in quegli anni pure politicamente emarginata nel contesto siciliano, peraltro non affronta la sua negativa congiuntura commerciale migliorando la qualità della sua produzione serica con moderne tecnologie che consentirebbero di contrastare la forte concorrenza commerciale di altri centri di produzione. Per risolvere la crisi generalizzata in corso non si trovano o non si cercano alternative valide alla seta spostando gli investimenti e le produzioni su altri settori, rimanendo così sempre fermi nella difesa della tradizione e rifiutando qualsiasi idea apportatrice di progresso. Il Senato prova a contrastare almeno la concorrenza delle altre città dell’isola nella vendita della seta, con la richiesta di sempre maggiori vantaggi commerciali che il governo di Madrid concede ora con molta parsimonia a fronte di ingenti somme di denaro che Messina versa alle casse spagnole, aumentando così il debito pubblico cittadino. La criticità economica e la conseguente rottura degli equilibri sociali in città scatenano, negli anni che precedono la rivolta del ‘74, violente contese cittadine con l’emergere di divisioni fazionarie che convergono in due gruppi contrapposti i Malvizzi e i Merli (con riferimento a due specie di uccelli presenti nelle campagne messinesi) con composizioni sociali fluide per i frequenti passaggi degli aderenti da un partito all’altro, entrambi impegnati nella difesa dei propri interessi particolari minacciati dalla crisi. Per una più chiara comprensione della degli ambiti sociali di appartenenza dei due partiti in lotta, si propone la descrizione di Umberto Dalla Vecchia: “ Per Merli devono intendersi artigiani e lavoratori in genere. Immigrati, recenti, gente malpagata, pochi impiegati regi e un gran numero di dottori…(disoccupati), piccoli mercanti, drappieri, tessitori, alcune persone ricche e alcuni nobili. Per Malvizzi si devono intendere i nobili, gli iscritti alla mastra giuratoria e i loro parenti, qualche artigiano, il clero e gli ordini religiosi che arrivano a costruire due compagnie armate.” Con estrema semplificazione possiamo dire che aderivano alla fazione dei Merli coloro che pensavano di risolvere i loro problemi di sussistenza con l’ossequio interessato al volere spagnolo; aderivano ai Malvizzi quanti, sconfitti nei moti popolari contrari del 1672 ed in aperta crisi , pur non osando contestare l’appartenenza al regno di Spagna, provavano ad ostacolare l’evidente percorso di decadenza in atto sottraendosi all’opprimente controllo del governo centrale puntando su una politica di espansione economica delle attività commerciali con la richiesta a Madrid di sempre maggiori benefici. Ovviamente il popolo minuto di modesta condizione economica si schierò in base a criteri di mera convenienza personale. In questa lotta per la sopravvivenza, era sempre attiva l’ingerenza della rivale città di Palermo i cui maggiorenti, vicini al viceré spagnolo e a Madrid, temevano le pressanti e ben pagate richieste messinesi perché sempre tendenti a condizionare e ridurre la loro supremazia nell’isola. I rapporti tra le due città erano talmente tesi da far dire nel 1695 ad un messinese rimasto anonimo: “Città è Palermo che meriterebbe essere spiantata dalli fondamenti e perdersi dal mondo affatto la memoria”. Nelle seconda metà del XVII secolo l’insistente pressione diplomatica messinese per trovare da Madrid le possibili risposte alla crisi crescente otteneva solo verbali rassicurazioni di improbabili futuri interventi a favore. Il Senato e l’oligarchia al potere si assumevano così la responsabilità di prendere autonome decisioni unilaterali contro il parere reale. Tra i provvedimenti più rilevanti deliberati dal Governo cittadino per favorire una possibile ripresa dell’economia ricordiamo l’ abolizione di un dazio in vigore a favore dell’erario spagnolo sulle merci in transito nel porto, la cosiddetta “mezza e quarta dogana” e, per dare nuovo vigore all’attività portuale, il ripristino di un antico privilegio di Messina che consentiva agli imprenditori stranieri di operare in città liberi da imposizioni fiscali decisioni che inevitabilmente suscitarono forti tensioni diplomatiche con Madrid e pure con le altre città marittime dell’isola che da questi provvedimenti si sentivano penalizzate per le possibili negative ricadute sui loro affari. Le autonome decisioni messinesi prese in aperta opposizione al Governo centrale, non riescono a contenere i forti contrasti sociali in atto in città, ai quali si aggiunge la viva ostilità di Palermo che non intende cedere nulla dei suoi vantaggi di prima città dell’isola e il disinteresse di Madrid che, occupata in quel momento in ben altri problemi internazionali, poco si occupa delle difficoltà e delle recriminazioni di una città, certo importante, ma considerata ai margini del suo regno. A Messina, l’oligarchia al potere confusa e divisa al suo interno tra clan, consortili, casate, famiglie, sempre più consapevole che dal Governo centrale non sarebbero arrivate le risposte cercate, prendeva la temeraria determinazione, iniziando il mese di luglio del 1674, di porsi in aperto e definitivo contrasto con il potere spagnolo, unica tra le città siciliane, nella convinzione di aver trovato nella autonoma gestione dei suoi affari la possibile soluzione ai problemi. La città illudendosi di poter ricoprire ancora un ruolo politico primario nel contesto mediterraneo, chiedeva protezione e offriva alleanza a Luigi XIV, inserendosi così nel contesto della “Guerra d’Olanda” in atto (1672-1678), tra Spagna e Francia, sperando ovviamente nella vittoria dei francesi. Dobbiamo supporre che i messinesi ritenessero questa coraggiosa decisione l’unica possibile via d’uscita , forse l’ultima speranza, per tentare di risollevare con l’aiuto della Francia, una realtà sociale ed economica ormai in evidente involuzione; forse agiva pure il desiderio nostalgico e irrazionale di un ritorno a un passato ritenuto glorioso e sicuramente di maggiore benessere, sperando di trovare con nuove opportunità e soprattutto con un ruolo egemone in Sicilia, forse promesso dalla Francia, la possibilità di un futuro migliore. Ma la ribellione messinese con l’entrata in guerra contro la Spagna, può avere anche una ulteriore e più razionale chiave di lettura: aver capito che in quegli anni il ruolo di maggiore potenza europea stava passando dalla Spagna alla Francia e dunque conveniva anticipare i tempi abbandonando gli antichi padroni per i nuovi, apportatori di nuove e più dinamiche idee e positive speranze. Certamente i messinesi fecero male i loro calcoli relativamente al previsto e auspicato imminente crollo del dominio spagnolo in Sicilia che avvenne solo un quarantennio dopo. Con il suo giuramento di fedeltà del 22 Aprile del 1675, con la disponibilità del suo porto, dove la flotta francese era già arrivata nel febbraio del 1675, delle sue risorse e dei suoi uomini, Messina si attendeva dalla Francia pure il riconoscimento di quel ruolo di “Caput Regni” che rivendicava da sempre per sé contro Palermo. La storia ci dice che gli avvenimenti europei non andarono nella direzione auspicata dai messinesi. Finita la guerra, con la pace di Nimega (1678) tra le due potenze europee, in seguito ai loro accordi, nel marzo del 1678 le navi francesi presenti nel porto, abbandonarono definitivamente Messina al ritorno in città delle forze spagnole e alle decisioni del Viceré di Sicilia nominato da Madrid.
La Spagna ritorna a Messina. “Se debia entrar desde luego moderando el orgullo y presunción”. La fine dei privilegi.
Gli spagnoli vincitori, dopo un iniziale comportamento tendente a ricostruire una rinnovata collaborazione con Messina , prevalendo nelle corti di Madrid e Palermo il partito di coloro che, memori dei tanti problemi che i messinesi durante la recente guerra avevano creato alle loro forze militari, osando pure accogliere festanti in città la nemica flotta francese, valutavano necessario operare un ridimensionamento delle tante prerogative che consentivano alla città, per molti aspetti, di gestirsi autonomamente, eccessive a loro parere. Era pure indispensabile, per prevenire simili comportamenti in futuro anche da parte di altre città siciliane, applicare ai messinesi opportune gravi sanzioni per punire “el atrevimiento y execrable maldad que llegaron a cometer en tan grave y conocido perjuicio de la Real authoridad”: una comunità che ribellandosi si era resa colpevole del grave reato di “lesa maestà”. Gli spagnoli non avevano dimenticato che i ribelli messinesi avevano pure conseguito a loro danno con gravi perdite subite, una pur effimera vittoria in uno scontro campale nell’agosto del 1674 in località Lombardello sui vicini monti Peloritani. Con questo preciso mandato, nel gennaio del 1679 giungeva a Messina il Conte Francisco de Benavides di Santistevan viceré spagnolo di Sicilia. Coloro in città che avevano partecipato attivamente alla rivolta, prevalentemente componenti della fazione dei Malvizzi, nobili e cittadini tra i più ricchi e autorevoli, temendo la vendetta del viceré, lasciarono per tempo le loro case e i loro affari per rifugiarsi altrove, molti partirono con le navi francesi. Le fonti dell’epoca parlano di circa 4000 persone.La rivolta di Messina rimase in Sicilia un avvenimento isolato, infatti non fu imitata da altre città, convinte ma pure timorose di non poter ottenere alcun vantaggio ponendosi contro il potere spagnolo e anche per non allearsi, seguendone l’esempio, con una comunità che si caratterizzava per un eccessivo oltranzismo autonomistico nei confronti dello Stato e verso la quale nutrivano antipatia e antica ostilità e inoltre era unanimemente considerata nell’isola ribelle e arrogante: ” I molti privilegi, con i quali si è gloriata la Città di Messina di essere arricchita, furono sempre causa che la medesima si rendesse nauseosa…alle altre città del regno.” Così si esprimeva al tempo un siciliano non messinese.
Delle più alte onorificenze castigliane fino al “toson d’oro” furono insigniti da Carlo II baroni palermitani e siciliani per la loro partecipazione a fatti d’arme contro Messina. Finiva così l’originale realtà messinese aperta ai commerci e alla produzione della seta, rimaneva la Sicilia feudale del baronaggio che ancora per decenni sfrutterà, in una perenne crisi finanziaria e sociale l’intera isola senza apportarvi significative novità. Il governo spagnolo mise in atto severissimi provvedimenti anche per togliere ogni volontà e capacità di reazione futura alla città ribelle, arrivando a dichiararla città “morta civilmente” e “indegna di ogni tipo di onori”. Tra i principali ricordiamo l’abolizione dei numerosi privilegi fiscali di cui godeva il porto, il trasferimento a Palermo della zecca, le gabelle cittadine e i beni dei messinesi andati esuli incorporati dal Regio Fisco, il licenziamento di chi pur ricoprendo incarichi pubblici non era rimasto fedele alla Spagna. Le sanzioni non si limitarono solo agli aspetti economici, commerciali e amministrativi, Madrid e le comunità siciliane che dal ridimensionamento di Messina attendevano sicuri vantaggi, vollero abbattere non solo la sua ancora positiva economia, ma anche ogni possibilità di ripresa futura agendo su quanto di più prezioso possiede una comunità umana, ovvero sulla cultura e istruzione delle nuove generazioni. Furono infatti chiuse l’Università trasferendone le facoltà all’Università di Catania ( la riapertura, dopo vari tentativi falliti, avverrà solo ne 1838 con decreto di Ferdinando II di Borbone), le accademie e distrutto l’Hortus Messanensis, prestigioso orto botanico fondato dal botanico Pietro Castelli. Ma la vendetta, con psicologica determinazione, volle operare per privarli delle testimonianze tangibili della loro storia, umiliandone anche l’orgoglio civico con atti che avevano solo il significato di fare crollare emotivamente i messinesi: si attuò il “Despojo delle memorie” con il sequestro e invio a Madrid, dalla torre del campanile del Duomo dove erano custoditi, di tutti i documenti che facevano fede dei tanti privilegi che la città aveva nei secoli meritato e anche acquistato dai dominatori di turno con ingenti esborsi di denaro. Simbolo del declassamento politico della città fu l’abbattimento del palazzo del Senato che sorgeva nella piazza della Cattedrale, per ricordare a tutti che il potere legislativo ed esecutivo in città riposava nelle salde mani del Re spagnolo. Nello spazio così lasciato libero fu collocata, per tenere sempre viva nei messinesi la memoria dei fatti di quegli anni che tanti dolori avevano loro causato, una statua equestre del re Carlo II raffigurato mentre schiaccia “l’Idra messinese”, costruita da Giacomo Serpotta utilizzando il bronzo ricavato dalla fusione della principale campana della Cattedrale, che i messinesi suonavano quando- secondo loro- venivano violati i diritti comunali veri o presunti. Gravissimo fu il trafugamento per inviarle in Spagna di innumerevoli opere d’arte soprattutto pitture, tra quelle rimaste in città dopo i furti operati dai francesi nei quattro anni della loro presenza a Messina. Il danno per la cultura messinese non fu di poco conto perché le case dei messinesi, le chiese e la galleria del Palazzo senatorio custodivano numerosissime opere di importanti artisti che in quei decenni avevano operato a Messina, quali Michelangelo da Caravaggio, presente nel 1608, Rodriquez, Minniti, Barbalonga, Quagliata, Scilla, Marolì, per ricordare i maggiori. I Giurati, componenti del maggiore consesso civico, ora chiamati con il nome meno prestigioso di “Eletti”, furono privati degli onori che loro competevano, della prestigiosa sede e dei poteri per il governo della città, e inoltre, per ridurne l’autonomia decisionale, le adunanze si sarebbero ora svolte in presenza del governatore spagnolo della città. “He resuelto establecer por regla general y perpetua que de aquì adelante no se use mas del nombre Jurado sino que se llamen electos para el Govierno” Le numerose confraternite religiose, molto vicine al sentimento popolare, furono poste ciascuna sotto la sorveglianza di un funzionario regio. Case, botteghe, terreni coltivati, gelseti, e altri beni confiscati ai rivoltosi fuggiti dopo la rivolta “…clarando confiscados los Bienes, Oficios de qualquier genero, y calidad que sean, Feudos, Rendas y fructos de ellos de todo los Mecineses que se han ido de Mecina à Francia. Y à otros Dominios…”, andarono alle famiglie rimaste fedeli o confermati alle stesse famiglie proprietarie, ma dati ai loro componenti di più modesto lignaggio, spesso alle donne. Le confische procedettero per anni determinando una radicale trasformazione della società messinese con il subentro egemonico delle famiglie che erano rimase fedeli alla Spagna nel 1674, ora ampiamente beneficate anche con titoli nobiliari. Negli anni 80 del ‘600 la città era tornata per Madrid “fedelissima” e sotto il controllo dei messinesi suoi alleati. La crisi della sericoltura, la guerra, la carestia, la dispersione demografica, la “cecità” spagnola, portarono Messina verso una progressiva decadenza dalla quale si riprenderà parzialmente solo dopo molti anni. Il disastro economico dopo il 1678 determinò l’emigrazione di circa metà della popolazione. Con il crollo totale del secolare sistema autonomistico, accanitamente sempre difeso dai messinesi, finiva così definitivamente anche per la Sicilia quel diverso modello sociale, economico e culturale che la città dello Stretto aveva rappresentato per alcuni secoli con una sua originale aristocrazia mercantile- terriera aperta alla produzione e al commercio. Messina nei decenni successivi piomba nella desolazione economica e sparisce dal novero dei principali centri commerciali del Mediterraneo.
A Madrid si valutano i progetti per costruire una Cittadella militare
Tra gli interventi necessari per potenziare il ruolo di Messina nell’ampio scacchiere strategico-militare del Mediterraneo e per un ferreo controllo della stessa, l’edificazione nel suo territorio di una grande struttura difensiva è considerata a Madrid e a Palermo obiettivo imprescindibile e urgente. Chi governa è consapevole dei propri errori commessi prima della ribellione messinese del 1674, quando quel territorio siciliano e quel tratto di mare tra il mare Ionio e il Tirreno, di alta valenza strategica militare e commerciale, lasciati senza una adeguata protezione armata, avevano consentito ai rivoltosi messinesi di impossessarsi con facilità dei forti della città posti sulle alture prospicienti e del porto e da lì dell’intero abitato, allontanandone il presidio spagnolo. E’ stata più volte avanzata la tesi, in voga negli anni post- risorgimentali, che la necessità di un forte baluardo difensivo attiguo alla città, sia stata motivata esclusivamente per contenere le coraggiose e frequenti patriottiche ribellioni messinesi contro lo straniero. Si è del parere che tale convinzione non giustificherebbe le dimensioni, la forma e il luogo in cui esso fu costruito e la numerosa guarnigione militare poi lì stanziata. E’ più realistico ritenere che con una imponente struttura militare la Spagna volesse potenziare prioritariamente il controllo costiero dello Stretto, intento che, nonostante l’impegno profuso, non si realizzerà pienamente, infatti il tiro dei cannoni della grande Cittadella poi lì collocata non riuscirà, in più occasioni, a impedire che eserciti nemici sbarcassero ugualmente sulla costa messinese, fuori dalla loro portata. Individuato il piano di Terranova come luogo adatto per ubicarvi la piazzaforte, nel 1678 il governo spagnolo dà al colonnello ingeniero Juan Bautista Sesti, l’incarico di elaborare un progetto che corrispondesse ai suoi obiettivi. L’idea del progettista prevede un’ampia struttura fortificata da edificare in un territorio interno alle mura che circondano la città a sud-est.
Esaminata e accantonata a Madrid questa soluzione che avrebbe sconvolto un vasto territorio cittadino abitato o per altri motivi non noti, si approva l’idea presentata dall’ingegnere olandese Carlos Grunembergh, noto per i suoi progetti relativi ad altre fortificazioni in Europa, che propone di costruire un forte, ovvero una cittadella militare, di più ridotte dimensioni, appena oltre le mura che cingono la città, nel tratto di costa iniziale della piccola penisola di S. Raineri che circonda il porto messinese. Soluzione questa, che avrebbe causato minori danni al patrimonio edilizio e salvato il Palazzo Reale che il progetto Sesti prevedeva invece di abbattere. Tuttavia, poiché anche il nuovo sito prescelto, sarebbe stato prossimo al Quartiere di Terranova, un territorio densamente abitato,
realtà ovviamente incompatibile con le finalità militari del forte, si accettò l’idea di dover abbattere almeno gli edifici civili e religiosi più vicini con il conseguente trasferimento altrove di chi in essi viveva. Il costo dell’opera e delle necessarie demolizioni la Spagna lo pose a carico degli stessi messinesi anche con l’alienazione di terre di proprietà comunale. Il regio Fisco nel periodo 1679-1680, anche con la vendita di molti Casali del territorio, incamerava da Messina un capitale che costituiva la seconda voce in ordine di importanza della Hacienda Real di Sicilia. I lavori per il forte furono avviati nell’aprile del 1680. I messinesi rimasti in città, dopo l’esodo forzato dei tanti che erano fuggiti nel 1678 temendo la vendetta spagnola, assistevano impotenti al disfacimento politico ed economico della loro città, al quale si aggiungeva con l’edificazione di quella imponente struttura militare anche quello urbanistico e storico.
Demolizioni nel Quartiere di Terranova e nel braccio della Falce
Avviati i lavori per costruire la Cittadella, si procedeva contemporaneamente con estrema determinazione, alla demolizione di case e palazzi, chiese e conventi che si trovavano nell’area da occupare.
Successione temporale degli abbattimenti degli edifici presenti dal 1678 al 1783 nel Piano di Terranova
Chiesa/altro | Anno della demolizione | Riferimento su figura n. 3 |
Chiesa di S. Giovanni decollato | 1679 | n. 1 |
Chiesa di S. Maria Maddalena e Monastero dei Benedettini | 1679 | n.2e n 9 |
Torre Mozza | 1680 | Fig.4 n.6 |
Chiesa di S. Maria della Grazia in S. Raineri e Convento dei Padri Carmelitani Scalzi di S. Teresa .nel braccio di S. Raineri | 1681 | Fig. 4 n.5 |
Fontana di S. Raineri | 1681 | Fig.4 n.11 |
Palazzo Caloria | 1783 | n.13 |
Chiesa di S.Carlo Gesuiti | 1684 | n.3 |
Casa di Terza Probazione dei Padri Gesuiti | 1684 | n.10 |
Palazzo Castelli poi Monastero della SS. Immacolata Concezione | 1717 | n.15 |
Chiese parrocchiale di S.Maria della Grazia di Terranova | 1718 | n.5 |
Chiesa di S. Croce | 1718 | n.6 |
Monastero di S. Maria della Misericordia e Chiesa di S. Andrea parrocchiale | Il Monastero e chiesa, nel 1735 per la guerra | n.8 e n 12 |
Palazzo Cannavale | 1783 | n.7 |
Palazzo Reitano marchese di Gallodoro | 1783 | n.18 |
Convento e Chiesa di S. Restituta degli Agostiniani Scalzi | 1783 | n.7-n.14 |
Vecchio Arsenale | 1783 in parte | n.16 |
Tra le prime strutture distrutte nel 1679, la Chiesa di S. Giovanni Decollato dei Padri Agostiniani Scalzi, presenti a Messina dal 1611. Nello stesso anno andarono giù la Chiesa e il Convento di S. Maria Maddalena di Terranova dei Padri Benedettini, da pochi anni edificati vicino al Baluardo S. Giorgio. Secondo lo storico Caio Domenico Gallo, i due edifici erano stati: “Costruiti con dispendio incredibile, con architettura insigne e con prospetto di marmo bellissimo”. Il Convento, ci dice Giuseppe Grosso Cacopardo: “ … era a quattro piani ed aveva trentasette luci di fronte, con tre maestose porte”. Tra il 1680 e il 1682 nel braccio della Falce, fronte mare aperto, furono tolti il Baluardo S. Giorgio e la Torre Mozza, la fontana di S. Raineri e la Chiesa e il Convento di S. Maria della Grazia di S. Raineri dei Padri Carmelitani scalzi che, lì presenti dal 1620, si dovettero trasferire nell’omonima chiesa nel Piano di Terranova.
Le demolizioni continuarono dal 1689 con la Chiesa di S. Carlo e la Casa di Terza Probazione S. Francesco Saverio dell’Ordine di S. Ignazio di Lojola, inaugurati solo nel 1635. Dalle scarse notizie che ci sono giunte sappiamo che la chiesa dei Gesuiti era a unica navata con due file di otto colonne ai lati che formavano un unico corpo con le pareti, due altari nella navata, coro e altare maggiore. Ma oltre alle chiese erano abbattuti palazzi di messinesi abbienti, vendite al dettaglio, botteghe di artigiani, modeste case, anche la muraglia esistente tra il Baluardo S. Giorgio e l’altro più a sud S. Giovanni o Don Blasco, la fontana di S. Raineri e distrutto un orto botanico con piante medicinali. Nel 1695 fu tolto il vecchio Lazzaretto esistente dal 1576 vicino al cimitero degli appestati, che era servito in più occasioni anche come alloggio militare. E’ facile capite che l’enormità del progetto di Grunembergh impegnerà le maestranze addette ai lavori per parecchi anni. Nel 1683, nonostante la Cittadella sia ben lontana dall’essere conclusa, le spese già ammontano a ben 673.937 scudi poste a carico dell’erario cittadino. Alla fine quando ultimata nel 1734, la Cittadella militare avrà forma pentagonale con un perimetro di ben 1382 metri con cinque baluardi, circondata da canali ove circola acqua marina, con ulteriori barriere esterne a protezione, rivellini bastionati, cortine e imponenti muri avanzati spessi tra 5 e 15 metri. La possibilità di fuoco coprirà un angolo di 360 gradi contro attacchi provenienti da qualsiasi direzione. L’intera struttura con le opere esterne occuperanno, uno spazio di circa 61.000 mq. La sua vastità è meglio percepibile sapendo che nel 1860, all’arrivo delle truppe garibaldine in Sicilia, ospitava al suo interno circa 4300 militari borbonici.Negli anni del‘700 l’intero abitato del Piano di Terranova e non solo gli edifici più vicini alla Cittadella, è destinato inevitabilmente a sparire e i suoi residenti a trasferirsi altrove perché il normale svolgersi della vita civile non è più compatibile con le attività militari in pace e in guerra della grande fortezza. In quel secolo per ben quattro volte la Cittadella è chiamata a svolgere la sua funzione di avamposto nello Stretto coinvolto negli scontri militari tra le grandi potenze europee per la conquista della Sicilia. E per altrettante volte i messinesi vedono cambiare sul pennone del baluardo Don Blasco i colori della bandiera della nazione che la occupa Le operazioni belliche di quegli anni con gli intensi cannoneggiamenti che ovviamente non colpiscono soltanto le strutture del forte che peraltro resistono grazie alla loro solidità, coinvolgono gli edifici del Quartiere Terranova, ormai disabitati, che in gran parte vengono gravemente danneggiati. Le distruzioni si completeranno nel 1783 quando un forte terremoto squasserà la città completando così l’opera di demolizione di quanto esistente in quel tratto di terra che ormai libero da impedimenti, sarà trasformato in piazza d’armi per le esercitazioni delle truppe borboniche.
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