Lucio Piccolo un “pittore di poesia”
pubblicato su Moleskine
Viviamo in una società dove la fama, il successo, la visibilità, il denaro e il potere sono spesso gli unici valori che ci vengono proposti, a cui molte persone aspirano per tutta la vita. Lucio Piccolo ha rappresentato certamente un’eccezione. Francesco Latteri Scholten, autore di numerosi articoli e saggi, dice di lui: un “pittore di poesia”, le sue non sono parole, sono immagini, immagini scritte che hanno la bellezza di un quadro di grande autore. Lucio, figlio di Giuseppe, grande possidente terriero nell’area nebroidea, e della Contessa Teresa Mastrogiovanni Tasca Filangeri di Cutò, viene alla luce il 27 ottobre 1901 in una Palermo trasognata e pomposa. Timidissimo e molto attaccato alla figura autoritaria della madre cresce nell’enorme palazzo di famiglia in Via Libertà.
Fin da piccolo mostra un carattere solitario e distaccato persino dagli altri fratelli, Agata Giovanna e Casimiro, probabilmente anche per la differenza di età di circa 10 anni, che li separava. Mostra precocemente molteplici interessi, soprattutto verso la musica. Studia sempre moltissimo e si merita voti altissimi nonostante la severità della scuola in quegli anni. Ancora adolescente gli viene dato il soprannome di “musicista-filosofo”.
La sua vita cambia improvvisamente quando nel 1928 il padre muore lasciando la famiglia in grossi guai finanziari a causa del gioco e della passione per le “belle donne”. La madre con i tre figli è costretta a rifugiarsi in una villa di campagna nel messinese, nel paesino di Ficarra. Niente più feste sfarzose e vita mondana ma la lussureggiante campagna orlandina con i suoi scorci pieni di fascino sulle Eolie, i suoi spazi inondati di pace, in cui immergersi in lente passeggiate lungo i viali alberati o sotto i pergolati di glicine. Qui i tre fratelli coltivano le loro segrete passioni. Casimiro, il primogenito, l’occultismo, la filosofia e la pittura. Agata Giovanna la floricultura, sperimentando innesti e inusuali inseminazioni. Lucio, in un’atmosfera sicuramente a lui più congeniale, sprofonda nei suoi pensieri e nella sua natura malinconica, leggendo di tutto e ampliando all’infinito la sua cultura. Circondato dall’oscura penombra della sua camera, in contrapposizione alla violenta luce del sole mediterraneo, in modo, come lui stesso afferma, da accentuare il sogno e sfumare i contorni degli oggetti, sviluppa in quegli anni appieno la sua arte poetica che rimarrà nota solo a pochi intimi fino alla morte della madre avvenuta nel 1953.
Libero a quel punto dall’influenza materna che l’aveva sempre un po’ inibito e protetto, egli trova il coraggio di far stampare da un tipografo di paese in sole sessanta copie una piccola raccolta di poesie cui darà il titolo di “9 liriche” , componimenti giudicati purissimi e singolari, inediti nel panorama italiano, come disse Montale. A San Pellegrino Terme nel 1954, grazie a questa sua pubblicazione, diventò improvvisamente famoso. Fece la sua comparsa in un ambiente modaiolo e festante e colpì il pubblico oltre che per le sue doti poetiche, soprattutto per il suo personaggio: un gentiluomo siciliano che abita in un castello, colloquia con gli spiriti, seppellisce i suoi cani in un cimitero con tanto di tumuli, lapidi e fiorellini freschi, che pare discetti in arabo, sanscrito e aramaico e si diletti in matematica pura. Un uomo che non volle mai attaccare la luce elettrica nella sua stanza perchè è proprio al chiarore soffuso di una fiammella a petrolio che egli trova le parole e le immagini, in cui assapora l’”attesa notturna delle apparenze”. Da quel momento Lucio visse il suo periodo di gloria e divenne conosciuto anche fuori dalla sua Sicilia.
La sua casa fu visitata dai più illustri artisti letterati e giornalisti del tempo quali Piovene, Quasimodo, la Cederna, Sciascia e molti altri. Questa fama durò poco. Dopo essere stato al centro di molte attenzioni, anche per le vicende legate alla pubblicazione del libro “Il Gattopardo” scritto dal suo famoso e amato cugino Tomasi di Lampedusa, tutto tornò alla normale e solitaria tranquillità e i suoi piccoli riti quotidiani ripresero lontano dal clamore.
Tornò alla sua teoria delle apparizioni notturne. Egli sosteneva che durante la notte esseri umani, ma anche cani e gatti si materializzassero nella sua casa e per lo sforzo che essi facevano nel materializzarsi avevano sete. Negli angoli e sotto i tavoli di Villa Piccolo egli faceva mettere ciotole piene d’acqua per dissetare i visitatori della notte. Continuò a scrivere, a raccontare e a raccontarsi. Nelle sue parole è evidente una coscienza del negativo e della “fine”. I suoi versi esprimono una costante tensione metafisica di una sofferta interiorizzazione dei miti del paesaggio siciliano sentito come parte decisiva della sua anima. Ci ha lasciato il 26 maggio del 1969, durante la notte, al buio, nell’ombra, durante l’ora delle “apparenze”, il suo tempo preferito.
La sua grafia
Quella di Lucio è una scrittura in cui sembrano convivere due personalità: quella di un uomo dal carattere ostinato e intransigente generalmente poco conciliante ed egocentrico e quella invece di un “fanciullo” fragile e vulnerabile, curioso del passato, del tempo antico, che vuole mettere distanza tra sé e ciò che potrebbe risultare troppo coinvolgente a livello affettivo.
La dimensione grande e la forma angolosa e piuttosto stretta denotano grande ricchezza espressiva ma confermano anche il desiderio di raccoglimento, di ritrazione di un poeta che teme di vivere liberamente la propria affettività e il presente a causa di una tendenza psichica restrittiva che impedisce di socializzare con il prossimo in modo sereno e rilassato.
Le forme disuguali indicano una grande vivacità mentale e una autostima altalenante, mentre le lettere iper-legate senza soluzione di continuità indicano che egli desiderava annullare qualsiasi forma di separazione. Non alzava la penna, non interrompeva il filo grafico all’interno delle parole, non voleva separare le lettere nella scrittura, così come temeva le separazioni nella sua