Asterischi Messinesi
Cos’e pazz: vivo in una città dove non c’è intellettuale, professionista poeta, artista, giornalista, panettiere, negoziante, barbiere, salumaio che non si ritenga infallibile e non ostenti amore smodato di sé nonché disprezzo per i “concorrenti”; purtroppo, a me capita – non spesso ma talvolta, sì – di mostrare la mia fralezza (poet.) d’uomo, ontologicamente limitato come tutti gli esseri umani, e di ammettere i miei errori: per distrazione, disinformazione o altro, ma errori tuttavia. Devo prenderne atto: sono strano, in questa città di (presunti) giganti.
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Mi è capitato di assistere, qualche giorno fa, per puro caso, a una discussione tra due autorità, «due canizie», per dirla con Manzoni: forse, due professori universitari
Il più alto dei due, (possibile controfigura del Gino Bramieri prosciugato degli ultimi anni) esibiva un nasone lungo, quasi equino, pendulo sul labro superiore, un sorriso largo, stampato sulla bocca semiaperta, rughe marcate sulla fronte e sulle guance, cravatta e camicia giovanili. Rivolto al collega, ripeteva quella che doveva essere la supercazzola (per lo Zingarelli, «parola o frase senza senso, pronunciata con serietà per sbalordire e confondere l’interlocutore») preferita: «È un orco il cane?». Ma trasudava dagli occhi, dal naso, dalle rughe, dalla bocca, dalla cravatta, dalla camicia, dalle scarpe, uno sfrenato culto di sé, della sua alta carica, del suo prestigio esaltato dalla gratificante prossimità del collega.
Il suo corpo, invero, parlava, come tutti i corpi peraltro. E il linguaggio del corpo non è mai menzognero: «Io ho “attraversato la vita in carrozza”; non ho mai incontrato “il male di vivere”; non conosco, facendo gli scongiuri, dolori, sofferenze, morti di cari; me ne frego dei sentimenti popolari di uguaglianza, solidarietà, amicizia, amore; io sono io e gli altri non sono un cazzo». Si capiva, peraltro, di primo acchito, che ignorava le gioie del dialogo tra pari: solo rapporti gerarchici, per lui, dall’alto in basso o dal basso in alto, magari all’insegna di supercazzole: «È un orco il cane?».
L’altro, più mingherlino, ma di più alto livello gerarchico, era un uomo grigio, incolore, affogato in una bolla di grigio: i tratti tanto comuni da essere facilmente obliterati. Rispondeva con mezze parole e mezzi sorrisi al collega, che parlava con la bocca e non diceva nulla, ma era chiaramente gratificato dal rispetto implicito del collega stesso. Anche il suo corpo parlava: «Questo stronzo è più alto di me e avrà avuto più donne di me, ma sta più in basso di me e lo sa; io sono io e gli altri non sono un cazzo».