“Sulla poesia” (Parte Seconda)
Per scoprire dove mi porto.
Ma perché la poesia in un epoca piena di conflitti, in un’età in cui, più che in qualsiasi altra, avvertiamo la precarietà dell’esistenza e della fragilità umana. Qualcuno, a volte, anche l’inutilità del vivere?
Perché la nostra natura ci porta a vivere in doppio.
Nella mente la lucida follia dell’uomo, la cui azione oggi è misurata in rapporto a quanto produce, destinato comunque a soccombere alla terra, l’ora che non conclude e la terribile vanità del tutto.
Nel cuore la partenza, l’avventura, l’occasione di ascoltare i silenzi e il silenzio di Dio, di attraversare i confini, di rimettermi sempre in gioco, di abbandonarmi alla tenerezza, di guardare le giornate con gli occhi di un povero, di fermarmi a parlare, con la morte, dei millenni e dell’importanza di vivere, di sperare che oltre l’infinito, al di là del tempo, ci sia ancora io godere il piacere della Bellezza e a udire la voce di Dio.
Lo scontro avviene nel cerchio sgranato del mondo o nel cavo della mia mano, dove tutte le energie si confrontano, si comprendono, danno senso alla vita e plasmano e penetrano tutto l’uomo e la sua opera.
E’ là che vive strana la poesia che scoppia, talvolta, dentro l’animo e sconvolge, in prima, o parla con impercettibile sussurro a quei che sentono e decifrano e discernono e danno forma e significato ai segni perché riescano a rappresentare quanto accade cantando la vita e dando luce all’esistenza.
Perché la poesia è luce e Bellezza e senza la vita non sarebbe.
Ecco: la poesia nasce dovunque sia la vita e la sua possibilità. Anche dove pare non sia. Basta riuscire a vedere ciò che non si scorge, ad ascoltare ciò che non si ode, ad immaginare quanto i quadri della realtà non mostrano.
Non perché la poesia possa assumersi il ruolo di essere sostitutiva della realtà, ma sforzo per penetrare dentro all’essere intimo delle cose (della natura, della storia, delle città, delle fabbriche, dell’umanità, della Fede…), per osservarle con gli occhi di un bimbo che per la prima volta si spalancano sul mondo e lo vivono e ne rivelano la Bellezza e le brutture, prodotte dall’uomo, attraverso moti di meraviglia che si traducono man mano in parole vive e chiare.
Ed essendo visione, senza volerlo indica la via all’esistenza in quanto capace di toccare e di rendere uno il doppio proprio dell’uomo. Ora trasportando l’uomo nelle fantastiche ed emozionanti regioni del cuore, ora facendogli vivere intensamente le ragioni proprie dell’angoscia e della speranza per condurlo sui sentieri sempre irti dell’esistenza e della conoscenza, all’incontro fortuito o ricercato con la Bellezza.
E il mezzo? Le parole con la loro sonorità e la loro concretezza, dalle quali prendono misura ed efficacia.
Con le parole la poesia vive. Perché le parole consentono di parlare di noi con noi stessi, e di conoscerci e di indirizzarci a vivere e a operare il bene; perché le parole amano, se vivono l’amore; piangono e sperano se sentono il dolore; si ribellano se avvertono perdita di libertà; sanguinano e lottano se vedono pugnalata la giustizia; s’infuriano, e mai incitano alla violenza, se vedono calpestata la dignità dell’uomo; sono eroiche quando contrastano la menzogna perché “una parola di verità può salvare il mondo intero”; pregano se domandano una risposta che nessun uomo può dare; permettono di parlare con Dio e ne rivelano la Bellezza e l’Amore. Perché le parole nascono dal cuore e dal corpo. Forzandole, persino, se devono essere piegate a dire o a gridare quanto si crede vero e buono. Pur contro ogni forma di letteratura cosiddetta canonica o ufficiale, che pare insofferente ad ogni apparente forma di disarmonia o a contaminazioni linguistico-lessicali.”
La poesia non ha limiti se non nelle capacità del poeta che non riesce del tutto a cantare quanto essa gli rivela. Perché il poeta, a volte, ha della poesia una visione tale che non è capace di afferrare e di comprendere appieno, facendolo sentire straniero anche a se stesso perché non riconosce la sua misura. E, ironia della sorte, il poeta si scopre in armonia con il mondo proprio quando riconosce il suo limite e ne fa misura nel rapporto con la natura, con la realtà e con la vita che lo soverchia, con il desiderio e il piacere della Bellezza.
E la poesia come rifugio dal dolore e dall’infelicità? No. La poesia non è mai rifugio, ma mezzo di elevazione spirituale e morale, di comunicazione, che consente al poeta e, per mezzo di lui, al lettore di potere attingere, anche per una fiammata subito spenta, la conoscenza o la coscienza di sé e della realtà. E alla speranza. Ecco perché il poeta, che è il mediatore tra la poesia e il mondo, e tra questo e la poesia, ha l’obbligo morale di arrischiare anche una possibile “parola che squadra da ogni lato” per tentare di soddisfare alle domande di senso e la sua ansia di conoscenza e, senza volerlo, quella dell’occasionale lettore.
Per scoprire dove mi porto, devo compiere un viaggio fuori e dentro di me senza evitare nulla di quanto mi angustia e mi angoscia. E capire quanto mi rivela con semplicità indicibile la vita, sapendo cogliere in questa la Bellezza che la anima..
E’ allora che la poesia si fa carne e anima. Carne quando tenta di dare risposte visibili alle domande di senso; anima quando eleva quelle risposte nella sfera superiore dello spirito per condurre alla liberazione dallo stato bruto in cui la non-conoscenza o, meglio, la non-ricerca di sé relega l’uomo.
Da qui l’angoscia dell’attesa, e la lacerante meraviglia per la rivelazione del lampo nell’ora che non si aspetta: solo intuire la verità porta il poeta a finire, momentaneamente, l’ardore del desiderio, e anche a dolersi per lo sforzo di cantare quanto sarebbe facile al cuore, ma assai più complicato alla mente che non sempre possiede gli strumenti più adeguati a rendere comprensibile quanto si rivela in maniera spesso irrazionale e oscura.
La poesia, insomma, non è il frutto di un discorso intellettuale, quanto una verità che si manifesta come dato proprio d’una stupenda esperienza, come piacere rivelatore.
Se il lettore “sentirà” attraverso le parole lo stupore e le emozioni epifaniche visive e sonore del momento in cui il poeta ha avuto l’esperienza della folgorazione poetica della conoscenza di sé e della realtà, sarà allora che la poesia avrà adempiuto al suo compito: avere dato al poeta e al lettore l’inaspettata possibilità di avvicinarsi alla comprensione della primavera che cova la Bellezza nella straordinaria unicità di ogni cosa e della sua dinamica e finalizzata potenza, e che rimanda alla Bellezza che non ha madre e non ha padre e che si rivela nella magnificenza del creato; e di capire che c’è un modo diverso, e non per avventura, e proprio dell’uomo, di portarsi dove si tende e si vuole seguendo il piacere che danno “virtute e canoscenza”.
(Continua 2)
Orazio Nastasi