Alluvioni e lacrime di coccodrillo
Ogni volta è la solita storia. Di fronte agli immani disastri provocati alle campagne dalle esondazioni dei nostri corsi d’acqua, magari dormienti per decenni, e alle strade cittadine diventate torrenti, che tutto invadono e travolgono, scendono in campo i soliti noti a invocare l’eccezionalità dei fenomeni, (a loro dire) mai verificatisi prima e dunque imprevisti e imprevedibili: chiedendo un minuto dopo lo stato di necessità e l’assegnazione d’ingenti somme da parte dello Stato, cioè di tutti noi.
Ignorano o fingono di ignorare che, per ragioni più o meno commendevoli, hanno agevolato con pervicacia la cementificazione di tutto quanto cementificabile, rendendo il terreno non più idoneo ad assorbire, almeno in parte, l’acqua meteorica caduta; costretto i torrenti in camicie di forza, con muri d’argine e briglie sottodimensionati, per costruirvi a margine strade e fabbricati, forse ritenendo le loro dimensioni originarie un’anomalia della natura; sventrato montagne instabili a ridosso delle città per collocarvi villette e condomini in posizione panoramica; condonato di tutto in cerca di consensi, anteponendo l’interesse privato a quello collettivo, così procurando alla società un danno doppio: prima, perché privata di beni ambientali irriproducibili, nominalmente tutelati dalle leggi (per esempio, spiagge, boschi, casse di espansione dei corsi d’acqua) e, poi, perché chiamata a riparare i danni procurati in violazione di tali norme. Senza contare che gli stessi fondi stanziati per evitare o rimediare ai dissesti idrogeologici rimangono spesso inutilizzati o stornati per altri usi (del canale di gronda da costruire a presidio di Catania, opera che nei giorni passati avrebbe potuto evitare l’allagamento della città, si parla dagli anni ’60 del secolo scorso).
Nessuno nega l’eccezionalità degli eventi atmosferici che hanno investito la Sicilia, né i cambiamenti climatici, ormai quasi unanimemente condivisi dalla comunità scientifica. Ma piogge così dette “eccezionali” (tali da considerare, se non altro, perché assai distanziate nel tempo) sono sempre avvenute, come dimostrano ricerche storiche da me condotte sugli ultimi tre secoli, condensate in un libro edito nel 2016, intitolato non a caso Il secondo flagello di Messina, le disastrose ricorrenti alluvioni e i tentativi di porvi rimedio. Di tali ricerche mi riprometto in seguito di presentare in questa sede qualche breve recensione. Intanto, giusto per dare un saggio di quanto sopra sostenuto, ripropongo uno stralcio dell’alluvione occorsa a Messina nel 1855, così come riportata da Gaetano Oliva nei suoi famosi Annali, con riferimento al dettagliatissimo resoconto presentato il 2 marzo 1856 all’Accademia dei Georgofili di Firenze, di cui era socio, da Pietro Cuppari, insigne agronomo messinese, allora in servizio presso l’Università di Pisa.
Il giorno 12 novembre 1855 si rovesciò tale impetuosa pioggia sul territorio compreso tra la punta del Faro e la linea che congiunge Milazzo e Taormina da sorpassare tutti i diluvi dei quali la tradizione ha in Messina serbato memoria.
La pioggia veniva giù in tanta copia che le acque, bentosto congregatesi sulle pendici […], non andavano giù per le usate vie in cerca del prossimo rivo ma, sollecitate dalla forza che in virtù della propria mole acquistato aveano, precipitavano giù dirotte per la china, scavandosi spessi e profondi canali, sfasciando muri a secco, trascinando annosi alberi e trabalzando enormi massi: tutto cedeva innanzi a tanto impeto. Le fiumare travolgevano e frantumavano gli artificiali ripari, inghiottivano i terreni contermini con quanto sopra vi stava: agrumi, gelsi, vigne, ulivi, casamenti […].
Immensi furono i danni in città, immensi quelli delle adiacenti campagne.
I torrenti della Luscinia o Portalegni, di Trapani e della Boccetta, sorpassati o rotti gli argini, gettaronsi in città, allagando e devastando le botteghe e i bassi di parecchie strade, facendo più di una vittima.
Il sobborgo delle Fornaci, interamente allagato e in procinto di esser quasi tutto trascinato a mare dall’eccesso delle acque del torrente Ritiro, contò più di quindici morti; altri due ne ebbe il borgo S. Clemente, devastato dalle acque del torrente Zaera; un altro quello di S. Maria La Nuova, sul quale premeva il sopravanzo delle acque del torrente Trapani.
Peggio ancora toccò ai villaggi: S. Michele, Scala e Ritiro ebbero i maggiori danni: in essi non più giardini, non più orti, non più terre coltivate o coltivabili in pianura, ché tutte erano diventate una fiumara.
Nel villaggio di Tremestieri si gettò la piena delle acque del torrente Larderia, producendo danni incalcolabili; nei villaggi Annunziata, Camaro, S. Filippo e Bordonaro irruppero le omonime fiumare, si che case e poderi devastarono in gran numero, e parecchie vittime ebbero a contarsi; il villaggio Gazzi rimase per più che metà seppellito dalle arene e dai sassi trasportativi dal torrente Bordonaro; quello di Catarratti quasi per intero, sì che i pochi abitanti superstiti furono costretti a ricostruire le loro case più a monte.
Con ispecialità è degno di nota il fatto della inondazione della chiesa di S. Maria del Gesù superiore, dove i cadaveri umani […], levati via dalla irrefrenabile ira delle acque, si videro in preda alle onde che assieme alla corrente li trassero agli opposti lidi di Calabria, ove pietosamente furono in gran parte raccolti e tumulati.