La peste a Messina, un lockdown nel 1743
Il 25 marzo del 1744 il vicerè Bartolomeo Corsini1, dà incarico al Canonico D. Francesco Testa vescovo di Siracusa e deputato al Parlamento del Regno di Sicilia di scrivere ”…una relacion historica general, veridica,y distinta, de todo lo que ha accurrido en el Contagio de Mecina”2,per lasciare una testimonianza scritta dell’impegno con cui il suo Governo aveva affrontato e risolto l’epidemia di peste che aveva sconvolto quella città nell’anno 1743.
Anche il Senato messinese incarica il suo segretario Orazio Turriano di stendere un “Ragguaglio“3 sugli stessi avvenimenti, probabilmente, raccomandandogli di evidenziare che i danni causati dall’epidemia al tessuto sociale della città, non erano stati aggravati dall’inerzia delle autorità civili e religiose messinesi che con il loro incoerente comportamento non avevano saputo -come affermava Palermo- tempestivamente contenere la diffusione del morbo, ma che tutto era avvenuto per chiara e imperscrutabile volontà divina. Grazie soprattutto ai loro resoconti sappiamo quante sofferenze visse la città in quegli anni, anche a motivo delle tante disposizioni sanitarie e di ordine pubblico imposte, spesso inutili e solo repressive per la sfortunata comunità messinese. Oggi ci rendiamo conto che la veloce e impetuosa progressione del morbo fu causata, certo dalla sua virulenza, ma pure dalla lentezza con cui furono prese le necessarie decisioni da parte di chi ne aveva il compito, con la complicità dei medici che, condizionati dal potere politico, non vollero diagnosticare per lungo tempo casi di peste, nonostante le evidenze. Il Senato non accettò la realtà dal primo manifestarsi del morbo e ancora per settimane, nascondendo l’evidenza alla città, tergiversò invece di dare all’autorità sanitaria apicale di Palermo corrette informazioni sulla gravità di quel che accadeva nelle case dei messinesi dove ormai si succedevano numerosi i decessi causati, come tutti volevano credere, da consuete patologie primaverili. Si sperava così di scongiurare o almeno ritardare, le severe disposizioni sanitarie che, si era certi, la Suprema Deputazione di sanità palermitana avrebbe preso per contenere il contagio e soprattutto il più temuto tra i provvedimenti , cioè il blocco dell’attività portuale. I due racconti dedicano ampio spazio anche al comportamento della Chiesa locale che favorì il diffondersi dell’epidemia con affollate processioni e funzioni liturgiche nel tentativo di mitigare ciò che le autorità ecclesiastiche ritenevano essere la giusta punizione divina delle colpe morali dei messinesi. Francesco Testa e Orazio Turriano non trascurano di evidenziare il contrasto che si sviluppò tra Messina e il Vicerè Corsini per i loro non componibili interessi in gioco nella gestione di quella vicenda che accadeva peraltro proprio in un tempo in cui il nuovo re del Regno di Sicilia Carlo di Borbone provava ad incrementare i traffici commerciali con l’Impero Ottomano con un trattato che prevedeva anche il potenziamento delle attività portuali di Messina, da questa auspicati e sollecitati da anni. I timori messinesi di quei giorni li conferma Orazio Turriano con queste sue considerazioni : “…Per ischivar su le prime il temuto patimento della privazione del commercio, si lusingò a non credere peste”4. Il Vicerè Corsini, trascorse le prime settimane, nell’attesa di notizie più chiare oltre quelle poco esplicite che gli pervenivano da Messina, quando ebbe finalmente piena contezza di ciò che vi accadeva, la peste ormai già correva tra le strade, nelle case e nei tanti conventi e monasteri della città.
Messina città al confine tra Occidente e Oriente
I cronisti citati, ad essi possiamo aggiungere le parole di un autore anonimo messinese pure testimone di quegli avvenimenti 5, fanno risalire la causa dell’inizio dell’epidemia, che per oltre due anni non lasciò il territorio messinese, all’arrivo in porto mercoledì 20 marzo del 1743, di una nave mercantile, un Pinco, proveniente dal vicino Levante turco. Le nostre fonti prendono avvio dalle severe procedure amministrative obbligatorie necessarie allora- ma in quella occasione eluse da Messina- per poter avere nel Regno di Sicilia dall’autorità marittima, l’autorizzazione per l’accesso ai porti. Così il comandante del Pinco prima di procedere all’attracco, presentò alle autorità sanitarie locali i documenti di viaggio e tra questi anche la “patente di sanità” (Appendice 1). Nei fogli di questo documento era dichiarato che l’equipaggio della nave era di 12 uomini e ora, dopo un lungo viaggio toccando i porti di Corfù, Zante, Patrasso e Missolungi, approdava a Messina con 11, essendo morto-come vi era scritto- pochi giorni prima un marinaio per “eccesso di fatica”.
Come previsto per i casi di mancata corrispondenza tra i dati riportati sulla patente e l’evidenza, la nave fu ammessa sì all’attracco ma disposto un tempo di contumacia di 24 giorni per i marinai e di 35 giorni per le mercanzie trasportate, da trascorrere in un tratto di costa appartato all’interno del braccio di terra di San Raineri. I resoconti procedono descrivendo gli accadimenti dei giorni successivi.
Nei primi giorni della quarantena muoiono il comandante e un altro marinaio della nave con sintomi e manifestazioni cutanee che i medici valutano non riconducibili a malattie di tipo infettivo ma a generiche cause stagionali. La Deputazione di sanità messinese, come d’obbligo in questi casi di incerta diagnosi, il 30 marzo invia alla Superiore Deputazione di sanità di Palermo una relazione allegandovi i giudizi clinici sulle probabili cause dei due decessi. Le autorità sanitarie di Palermo però, esaminata la relazione messinese, per i giri di parole, per le reticenze e per la poca chiarezza di quanto lì riportato, restano perplessi e ritengono che la realtà sanitaria su quella nave fosse molto più seria di quanto ad essi prospettato. Soprattutto notano le tante inadempienze procedurali messe in atto dall’autorità di Messina nella gestione di quel caso problematico. Infatti, era stato concesso ugualmente l’ingresso in porto al Pinco, nonostante che la “patente di sanità” non fosse netta per la morte di un marinaio nel viaggio per cause non chiare; ma pure che la nave non era stata posta immediatamente in stretto isolamento. Evidenziano inoltre che tra l’arrivo della nave e l’invio della relazione a loro erano trascorsi ben 10 giorni, tempo sufficiente, in assenza di opportuni interventi sanitari di prevenzione, per il diffondersi in città di un eventuale morbo da quel potenziale focolaio, forse di peste.
Il Magistrato del Commercio palermitano, su cui ricade la responsabilità della decisione, il 3 di aprile di conseguenza, dispone e invia a Messina, un primo prudenziale ma ancora generico provvedimento, ritenendo: “… quella città [Messina] come sospetta d’infezione”6. Evidentemente le notizie pervenute non sono ancora valutate da quella istituzione talmente gravi da mettere subito in quarantena non solo la nave ma pure l’intero territorio messinese; per il momento vi è soltanto un “ sospetto” di infezione. Si ordina però prudentemente di bruciare la nave, le merci e di porre in stretto isolamento l’equipaggio, in attesa dell’evolversi della situazione. L’Autorità sanitaria messinese, senza attendere disposizioni da Palermo, il primo di aprile aveva già incendiato nave e merci e isolato i marinai, dimostrando così che essa qualche dubbio l’avesse sulla possibilità che in quella nave vi fosse un grave focolaio di peste. In quegli anni il timore della peste, endemica nel vicino oriente, era tale da applicare forti misure cautelari nei porti solo al semplice sospetto di un suo apparire. Infatti, bastò quella notizia da Messina per disporre da Palermo anche la quarantena per le navi provenienti dall’Oriente , la chiusura momentanea del porto di Messina e l’allerta preventiva della guarnigione militare di stanza a Messina sotto il comando del Generale Giuseppe Grimau, con l’ordine di chiudere militarmente le vie di comunicazione attorno alla città solo al sorgere di un solo conclamato caso di peste. La città e l’intera Sicilia rimasero così in trepida attesa, temendo per il loro futuro. Francesco Testa annota che non essendo arrivati nei giorni successivi notizie di persone con manifesti sintomi di quel terribile morbo: ” al dì tredicesimo di Maggio , quando il Magistrato predetto venendo sempre più accertato del buon esser di Messina , permise libera la pratica alle navi , che ne provenivano . Onde non meno in Palermo , che in Messina, rassicurati gli animi de’ Cittadini, ed essendo già la nuova stagione di molto avanzata, coloro che di trapassarla in campagna si erano nell’animo indotto, in villa lietamente ne andarono”7. E pure Orazio Turriano conferma: ”La mattina del 15 maggio se ne fecero pubbliche grazie al Signore Iddio, con essersi cantato il Te Deum nella Maggiore Chiesa di quella Città…”. Ma l’allegrezza dei messinesi durò poco-continua Turriano: “…perché presto si trasformò in tristezza”8, infatti, nel quartiere de’ Pizzillari ,abitato da umili famiglie9, stava accadendo quello che tutti in città erano certi di aver scampato: i malati e i morti, in un primo tempo celati , aumentavano in gran numero con sintomi che tanti cittadini, ma solo pochi medici, riconducevano a quelli caratteristici della peste. Il 16 maggio ben 36 medici consultati dalla Deputazione di sanità messinese sulle cause di quei decessi, insistevano ancora nell’affermare che le patologie da loro osservate non erano malattie contagiose , né certamente la temutissima peste, ma erano da considerare le consuete “malattie epidemiali”, già presenti in città in quell’inverno. La diagnosi era peraltro confermata- sempre per loro- dall’evidenza che i morti e gli infermi erano tutti,“ gente plebea” che, per sua natura, è cagionevole di salute e inoltre non c’era da meravigliarsi più di tanto perché gli almanacchi, come era a tutti noto, avevano presagito per quell’inverno numerosi decessi con catarri e febbre. Il palermitano Francesco Testa critica ma pure giustifica le errate conclusioni di quei medici messinesi:” …si aggiunge a ciò, che non facendo per ordinario ritorno [la peste] in una contrada, che dopo il giro di molti, e molti anni, i Medici non ne possono gran fatto aver quella esperienza che hanno delle malattie più volgari “10 .
Egli critica invece l’autorità civile messinese per aver perso colpevolmente tempo senza fare immediatamente le uniche cose che già allora si sapeva fossero indispensabili per prevenire e contenere il dilagare di un possibile morbo, a maggior ragione ove si sospettasse pur lontanamente fosse peste: “ Due sono i principali mezzi di fermare il corso alla pestilenza, il separare il sano dall’infermo o col sequestramento delle case o coll’uso de’ Lazzaretti; e il vietare, il più che sia possibile, la comunicazione, e il Commercio de’ cittadini tra loro dismettendo quelle cose, che portano unione, e concorso di gente, come sono principalmente le feste, le processioni, i tribunali, le scuole…”11 .
Nei giorni successivi il numero dei morti cresceva a dismisura e non soltanto nel quartiere de’Pizzillari abitato da: “ netta panni, da donne di Partito e da Populaccio”12 , ma pure nelle case dei messinesi benestanti. Ancora, quando tra il 23 e il 31 maggio si contarono oltre 331 morti , i medici della Deputazione alla presenza del Governatore della città D. Giuseppe Grimau, del Senato e dei deputati di salute confermavano pervicacemente, che: “ avendo osservato gli Ammalati, e considerato con ogni attenzione l’essenza e qualità delle Malattie, non trovavano in conto alcuno d’essere contagiose e pestifere, credeano essere sì d’essere le stesse Malattie epidemiali, che si erano fatte vedere qui in Febbraio”13 . Ad ogni buon conto i medici proposero qualche soluzione traendola dalla loro incerta competenza scientifica : ” Bruggiarsi per la Città, legni, ossa, e altre cose, per depurare l’aere, che si credea cagione di tal malattia popolare”14 (Appendice 2). A Palermo il Vicerè Corsini, in quei giorni di fine maggio, ormai non potendo più dare alcun affidamento alle sempre incerte ed evasive rassicurazioni che gli giungevano dalle autorità messinesi, sempre più convinto della esistenza della peste in quelle terre di confine, informava di quanto sapeva e temeva il Re Carlo a Napoli e disponeva più severe misure di sanità pubblica per Messina e per la Capitale e allertava le altre città dell’isola . Tra le tante precauzioni ora da osservare vi sono, per entrare nelle città, il possesso di una bolletta di sanità “sana”15, l’obbligo di fare convergere e “ profumare”16 la corrispondenza proveniente da Messina, cacciare le barche provenienti da Messina e interrompere i rapporti con chiunque abitasse nella parte dell’isola oltre le città di Taormina e Milazzo. Il palermitano Francesco Testa ironizza sul comportamento, incosciente ai limiti della follia collettiva, dei messinesi che, nonostante i 100 morti al giorno, nei primi di giugno, ancora apparivano non pienamente consapevoli della tragedia che li avvolgeva e credevano o volevano credere, che in città vi fosse una semplice “epidemia“- noi diremmo una epidemia influenzale- e, conseguentemente vivevano come: “…in una citta la più sana al mondo” 17. E il cronista anonimo aggiunge:” …Tutto va così dove regna in chi governa l’ignoranza non sapendo nulla di governo né di storia, non si possono dare altro, che ordini ridicoli” 18 .A Palermo erano pure giunte notizie che a Messina le autorità religiose, con l’accordo di quelle civili, non avevano avuto il coraggio, forse temendo tumulti tra il popolo, di annullare la principale festa liturgica della città del 3 giugno dedicata alla Madonna della Lettera, creando così una potenziale ulteriore formidabile occasione di contagio in città. Il cronista anonimo così condanna l’accaduto: “ …Non si fece sequestro né pubblicassi il male anzi si fecero quattro giorni di festa per la Beata Vergine della Lettera, i quali giorni unitasi il popolo tutto nella Cattedrale toccandosi ad invicem, lo che cagionò la totale rovina” 19 .Si comprende che il popolo attendesse con ansia quell’occasione, ultima speranza, per impetrare la grazia divina per la fine di quell’incubo e di quella strage. Turriano riporta che, fatta quell’ultima preghiera, il giorno dopo tutti accettarono la realtà, cioè che in città si moriva di peste: “ …fu sotto il 4 di giugno dichiarata peste l’infermità che si pativa “20 . Nei primi giorni di giugno arriva in porto una delegazione di medici inviata dal Vicerè, che evidentemente ancora non si fidava pienamente delle informazioni che gli giungevano da Messina, con l’ordine di prendere contatti con le autorità messinesi e visitare gli ammalati per avere piena contezza della reale situazione sanitaria della città. Turriano ci dice che essi, avendo capito la gravità di quanto accadeva e temendo per la propria salute, nonostante gli inviti messinesi , neppure sbarcarono e velocemente ripartirono verso Palermo:”…se ne tornarono con la stessa feluca, senza punto pratticare, né toccar terra…nonostante pregati erano di restar qualche giorno” 21. Il Tribunale del Real Patrimonio a Palermo, superato ogni dubbio e ormai consapevole che Messina non riusciva più a gestirsi, prendeva d’imperio ulteriori severe decisioni e provvedeva pure ad inviare derrate alimentari e concedeva alla città un prestito in denaro di 6000 onze per i primi soccorsi alla popolazione. Altri aiuti alimentari arrivavano da Catania e dai maggiori centri vicini.
Francesco Testa da parte sua, ci lascia una descrizione sufficientemente chiara della tragedia umana che si sviluppava a Messina in quei giorni d’inizio estate del 1743: “… il maligno pestifero seme che avean venti giorni condotte a morte mille cento trentaquattro persone…Già non possono più numerarsene gl’infetti; e le case dove penetra, rimangono in poco tempo diserte…ed era sì micidiale, che toglieva la vita alla maggior parte in due, tre o cinque giorni ,e a non pochi in sole ventiquattro ore [producendo] quasi in tutti gl’infermi i sintomi medesimi, coi quali erasi manifestato fin dal suo cominciamento, cioè a dire cocentissima febbre, sonnolenza, perturbazione di mente, nausea, ed enfiature per lo più nell’anguinaja… E perciocchè tra plebi di ordinario una sola picciola stanza accoglie una intera numerosa famiglia, spiravano i figliuolo sotto gli occhi de’ padri, languivano le spose accanto i cari sposi; i pargoletti esalavano l’anima in seno alle teneri madri”22.
Non mancò in quei terribili giorni la solidarietà della Chiesa di Siracusa infatti, il suo vescovo D. Matteo Trigona inviò reliquie di S. Lucia, di S.Bernardino da Siena e ceri benedetti.
FINE PRIMA PARTE
Appendice 1
La patente di sanità
La Bolletta o Patente di sanità era uno dei sistemi pensati per rilevare il sorgere e l’eventuale diffusione delle malattie infettive, soprattutto quelle che periodicamente si sviluppavano nei territori del vicino oriente. Si trattava di un certificato che le navi dovevano obbligatoriamente possedere tra i documenti di navigazione, da presentare al controllo delle autorità sanitarie dei porti di attracco. Essa era costituita da fogli prestampati spesso abbelliti con iconografie dei santi protettori della città di appartenenza dell’imbarcazione, per Messina ricorrevano quelle della Madonna della Lettera, di S. Placido, di S. Eutichio, di S. Vittorino, e di Sant’Alberto Fig.3. Ai santi che quelle immagini sacre rappresentavano i marinai chiedevano per loro la protezione dai pericoli del viaggio. La parte amministrativa del documento era strutturata con precise voci richiedenti varie e dettagliate notizie, sull’equipaggio (numero componenti e dati anagrafici, caratteri somatici ed età degli stessi), sui porti toccati lungo il viaggio, sulle merci trasportate. L’attendibilità delle Patenti di sanità si basava fondamentalmente sulle dichiarazioni giurate trascritte dai comandanti o proprietari delle imbarcazioni, ma pure sull’onestà e correttezza dei Magistrati di sanità dei porti in cui le navi facevano scalo, che sinteticamente vi annotavano le loro osservazioni , ma soprattutto era fondamentale che vi riportassero l’esistenza o meno di malattie infettive nei componenti l’equipaggio e se nei territori di loro giurisdizione vi fossero casi di malattie infettive in atto. Nel Regno di Sicilia la patente di salute si definiva “sporca “se negli scali toccati dalla nave erano in corso evidenti malattie contagiose, “postillata” se vi era certa notizia di contagi in territori vicini, “netta” se non vi era segnale alcuno di epidemia in corso.
La patente di sanità serviva pure, per poter dare accesso in porto alla nave, al controllo della corrispondenza tra il numero dei passeggeri e/o equipaggio presenti, e quello riportato su di essa. Si comprende che una eventuale discordanza allarmava i controllori suscitando il sospetto di decessi di non chiara causa durante il viaggio, in questi casi la nave o non veniva accettata in porto e dunque respinta o posta in isolamento. Poiché le navi che approdavano a Messina provenivano frequentemente dalle terre di Levante, luoghi in cui la peste era endemica, era massima la prudenza nel riceverle e scrupolosi i controlli, pertanto la Deputazione di sanità imponeva, a sua discrezione, che rimanessero alla fonda in luogo separato, a tale scopo era destinato un tratto di costa lungo la parte interna del braccio di terra della penisola di S. Raineri. Lì la nave e l’equipaggio dovevano trascorrere in isolamento la quarantena che, a discrezione dei magistrati di sanità, arrivava anche a 30 giorni per le persone e 40 per le merci.
Appendice 2
I miasmi
Pur vivendo in costante compagnia di roditori e parassiti di cui erano intensamente infestate case , magazzini, strade, cloache e pressoché tutti gli ambienti abitati soprattutto delle città, fino agli inizi del XIX secolo si era lungi dal ritenere che essi potessero essere la causa della comparsa e del diffondersi delle più gravi malattie infettive che con frequenza aggredivano la popolazione . La fastidiosa coabitazione con quegli animali- anche nel 1743 anno in cui si sviluppò la peste a Messina- non costituiva un fatto eccezionale, bensì solo una fastidiosa realtà accettata, con cui era necessario convivere. Per medici e speziali, la causa del contemporaneo manifestarsi in più individui di una malattia infettiva era da attribuire ad esalazioni malsane i “ miasmi”, elementi non definiti nella loro intrinseca natura ma necessariamente presenti , prodotti da innumerevoli fonti: dal terreno, dai cadaveri in putrefazione, dalla sporcizia, dalle acque putride e da molto altro ancora. La percezione di cattivi odori diffusi nell’aria, era la prova della loro esistenza “ il potere malefico della morte volante” 1 essi, penetrando nei corpi per inalazione o contatto ne turbavano l’equilibrio degli umori, causando i sintomi delle malattie che in breve tempo potevano portare a morte. I miasmi erano ritenuti “caldi”, perché causavano l’aumento della temperatura corporea e “appiccicaticci”, infatti aderivano agli indumenti, agli oggetti e pure al pelo degli animali. Il fetore era prova della loro esistenza e si era concordi nel ritenere che essi non passassero direttamente da individuo a individuo ma sempre attraverso un veicolo.
L’esperienza però dimostrava che questi criteri che davano corpo alla teoria “miasmatica o epidemica” non riuscivano a dare ragione di molte evidenze. Si rilevava infatti, che con maggiore facilità nel corso di una epidemia si ammalavano le persone conviventi, i sani che frequentavano i malati e il morbo si diffondeva velocemente soprattutto nei quartieri malsani e nelle case anguste dei poveri. Si elaborò perciò nel tempo una nuova teoria la “contagionista” con la quale si cercava di dare risposta alle tante domande eluse dalla “epidemica”. Le nuove ipotesi supponevano ora l’esistenza di corpi patogeni che non provenivano dall’aria inquinata ma che erano emanati direttamente dagli individui malati2. Si trattava di un modello esplicitamente opposto rispetto a quello miasmatico. La nuova teoria giungeva alla conclusione che la causa delle malattie infettive non erano i miasmi e l’aere corrotto , ma un veleno (virus) che si attaccava alle cose e vi rimaneva a lungo. Si pensava alla possibile esistenza di semi contagiosi (seminaria), agenti patogeni che provenivano dall’individuo malato che li trasmetteva a quello sano, secondo tre modalità di contagio: per semplice contatto, per mezzo di veicoli (fomites) portatori di germi (es. vestiti, lenzuola), e infine a distanza senza contatto diretto né veicoli.
Ancora nel primi anni dell’800 l’opposizione teorica tra le due teorie contagiosa ed epidemica era netta ma entrambe erano ritenute insufficienti per spiegare compiutamente l’eziologia delle malattie . E’ interessante sapere che nel 1838 in ambiente medico si affermava per il colera che era: “Un morbo il quale s’appicca e passa da uno in un altro individuo, da uno in un altro luogo; traversa climi e regioni differenti senza perdere mai della sua forza non può al certo ripetersi che dall’azione di un corpo sui generis ingenerato, di natura specifica ed invariabile, il quale posto a
contatto dell’organismo vivente, induce sempre i medesimi identici effetti”3.
E pure nel 1883 :“Contagiosa [è] una malattia quando la causa che la produce è specifica, quando dà origine costantemente ad una malattia identica, si moltiplica grandemente e rapidamente nel corpo in cui è penetrata e dal quale facilmente per vie diverse si propaga e trasmette da un individuo all’altroˮ. Al contrario le malattie epidemiche: “diconsi generate da un miasma. Ma queste non si propagano da individuo a individuo; il principio che emana dalle paludi e provoca gli stessi malori negli individui che l’assorbono, non opera che su di questi soltanto, in essi finiscee non si moltiplica nel loro corpo indefinitamente, né viene dai medesimi portato ovunque e propagato alle persone che li avvicinanoˮ4.
Le due teorie, complesse e poco chiare, non erano certamente d’aiuto ai medici e alle autorità pubbliche che dovevano nelle emergenze tutelare la salute pubblica con opportune decisioni e utili interventi, conseguentemente, ad essi non restava che tenere conto di entrambe con provvedimenti inevitabilmente insufficienti e spesso inutili, come il caso dell’epidemia di peste messinese ampiamente dimostra. 5
Fu A. E, J. Yersin (1863-1943) a capire nell’800 che la peste non era causata dai “miasmi” ma da un bacillo (Yersinia Pestis). Egli capì che la catena di trasmissione origina dal ratto portatore dei bacilli, presente negli ambienti umani, che infetta le pulci e queste l’uomo. Il morbo si manifesta sotto tre forme con differenti quadri clinici a volte alche compresenti: bubbonica, setticemica e polmonare; quest’ultima molto pericolosa perché il bacillo è espulso con l’espettorato. La malattia procede in modo rapido e può portare a morte in pochi giorni. Anche i pidocchi infetti contribuiscono a diffondere la peste sotto forma setticemica passando da persona a persona . Le pulci e i pidocchi infetti possono vivere benissimo per lungo tempo anche sugli abiti , tra balle di tessuti, merci varie, pelo di animali e così con essi essere trasportati anche a lunghe distanze dal luogo di origine di una epidemia per creare altri focolai . L’uomo con i suoi parassiti e i suoi frequenti e facili spostamenti, fu dunque la principale causa della veloce diffusione delle epidemie di peste. L’epidemia messinese degli anni 1743 1744 per il gran numero di morti causati, per i sintomi e per il decorso rapido fu prevalentemente polmonare.
1- Camporesi, P., Odori e sapori. In Corbin, A., Storia
sociale degli odori, XI-LXIV, Milano: Bruno Mondadori, 2005.
2- Bertini, P., Il cholera è o no contagioso?, Lucca. 1854
3- Liuzzi, I., Osservazioni sul Colera morbus indiano fatte in Roma
nell’estate dell’anno 1837. Roma. 1837
4-Zucchi, C., Il colera. Schizzo storico e profilattico. Milano.1984, p. 434).
5- Palermo D, I pericolosi miasmi. Gli interventi pubblici per la disciplina delle attività generatrici di esalazioni nel Regno di Sicilia (1743-1805), NDF, 2018
NOTE
1-Bartolomeo Corsini, 1683-1752, Principe di Sismano, Marchese di Tresana, viceré di Sicilia con Carlo Re
2- Francesco Testa, Relazione Istorica della Peste che attaccossi a Messina nell’anno mille settecento quarantatrè, coll’aggiunta degli Ordini, Editti, Istruzioni della Medesima, in Palermo, Appresso Angelo Felicella, MDCCXLV, p.166
3-Orazio Turriano, Memoria Istorica del Contagio della Città di Messina dell’anno MDCCXLIII, Napoli, presso DomenicoTerres, MDCCXLV.
4- ibid, p.2
5- Fedele Diario di tutto l’accaduto nell’Infelice Desolata Città di Messina dalli 20 marzo 1743…agli 8 di settembre 1743, di Ignoto– in C. Costanza, Fonti per lo studio della peste del 1743, Messina, EDAS, 1993, p.22
6- F.Testa, Relazione Istorica, cit. p.3
7- F.Testa, Relazione Istorica , cit. p.13
8- O.Turriano, Memoria Istorica, cit. p.16
9- Il quartiere dei Pizzillari, situato sulla riva destra del torrente Portalegni, era abitato prevalentemente da operai addetti alla produzione di pizzi e merletti da cui prendeva il nome: Silvio A, S, Catalioto, Messina com’era oggi, Messina, Sfameni, p.39.
10- F.Testa, Relazione Istorica…, cit., p.14.
11-F.Testa, Relazione Istorica della Peste, cit. p. 29
12- Costanza Calogero, La peste a Messina nel 1743 http://www.trapaninostra.it/libri/Biblioteca_Fardelliana/La_Fardelliana_1985_n_2-3/La_Fardelliana_1985_n_2-3-04.pdf p.23
13- O.Turriano, Memoria Istorica, cit., p. 17
14- O.Turriano, Memoria Istorica, cit., p.19
15- bolletta di sanità (documento questo per i viaggiatori per vie di terra simile alla patente di sanità prevista per chi viaggiava per mare)
16- Con questo termine si indicava la procedura che sottoponeva la corrispondenza ad un trattamento che, secondo le convinzioni del tempo, serviva ad eliminare i “miasmi” su di essa depositati. Si procedeva con vari sistemi, dall’immersione in aceto alla vaporizzazione con fumi di miscugli di erbe e composti chimici.cfr. Giuseppe Martino, Porto, Privilegi & Pulici, Giambra, Messina, 2019, p. 369
17 Testa, Relazione Istorica, cit., p. 29
18– Anonimo, Fedele Diario di tutto l’accaduto nell’Infelice Desolata Città di Messina dalli 20 marzo 1743…agli 8 di settembre 1743, in C. Costanza, Fonti per lo studio della peste del 1743, Messina, EDAS, 1993, p.22
19- Anonimo, Fedele Diario di tutto l’accaduto… , cit. p.22
20- O. Turriano, Memoria Istorica…, cit. p.24
21- O. Turriano, Memoria Istorica…, cit. p. 28
22- F. Testa, Relazione Istorica della Peste…, cit. p. 30