Il Gattopardo di Tomasi letto da un ambientalista
Da quando, dopo alterne vicissitudini redazionali, “Il Gattopardo” di Giuseppe Tomasi di Lampedusa ha visto la luce nel 1959, postumo, la critica si è incaricata di esaminare l’opera sotto vari punti di vista, come si addice ai grandi capolavori letterari: artistico, storico, sociologico, linguistico, etico-morale. In questa nota mi propongo di riguardare il romanzo sotto l’aspetto naturalistico-ambientale, cercando di rispondere, fondamentalmente, alla seguente domanda: la Sicilia che l’Autore ci propone, presentata quasi sempre sotto una luce assai cupa, è fedele alla realtà o trasfigurata in negativo dalla crisi esistenziale vissuta dal Principe Fabrizio, il protagonista, sia sul piano personale, sia quale rappresentante di una classe sociale in fase di dissoluzione? Personalmente propendo per la seconda ipotesi, come cercherò di dimostrare rivisitando alcuni celebri passi del romanzo.
Ecco, ad esempio, per spiegare la terrificante insularità d’animo, cosa dice il Principe Salina a Chevalley, l’esponente del parlamento sabaudo venuto dal Piemonte in Sicilia ad offrirgli la nomina regia a senatore, sdegnosamente rifiutata: […] ho detto i Siciliani, avrei dovuto aggiungere la Sicilia, l’ambiente, il clima, il paesaggio; […] questo paesaggio che ignora le vie di mezzo; […] questo paese che a poche miglia di distanza ha l’inferno attorno a Randazzo e la bellezza della baia di Taormina; questo clima che c’infligge sei mesi di febbre a quaranta gradi; li conti Chevalley, li conti: maggio, giugno, luglio, agosto, settembre, ottobre; sei volte trenta giorni di sole a strapiombo sulle teste; […] e poi l’acqua che non c’è o che bisogna trasportare da tanto lontano che ogni sua goccia è pagata da una goccia di sudore; e dopo ancora le piogge, sempre tempestose, che fanno impazzire i torrenti asciutti, che annegano bestie e uomini proprio lì dove due settimane prima le une e gli altri crepavano di sete (1).
Ora, senza nulla togliere alla poesia che aleggia in queste righe, è facile dimostrare che l’Isola come sopra dipinta è lungi dall’essere quella autentica. Non è certo questa la sede in cui render conto dei dati termo-pluviometrici registrati dal Servizio Idrografico Regionale dalla sua nascita ad oggi, ma posso assicurare che i quaranta gradi di temperatura vengono raggiunti in Sicilia solo eccezionalmente, e che le piogge, effettivamente distribuite in modo irregolare nell’arco dell’anno, concentrate come sono nel periodo in cui la vegetazione ha meno bisogno di acqua, non presentano andamento diverso da quanto avviene in tutto il bacino del Mediterraneo.
Intanto, alla visione del Tomasi si può contrapporre quella ben diversa del grande agronomo ed economista siciliano Paolo Balsamo, docente a lungo presso l’Accademia di Agraria ed Economia di Palermo, dopo avere soggiornato per anni all’estero, il quale così si era espresso 150 anni prima: É il nostro cielo uno dei più felici d’Europa, perché l’inverno è quasi una continua primavera; gli attivi calori dell’estate sono quasi regolarmente temprati da freschi piacevoli marini venticelli: ed in questa stagione nelle nostre alture e monti un’aria si respira piacevolissima, particolarmente quando vestiti son gli alberi […] (2).
Sul regime pluviometrico, lo stesso Autore poco più avanti osserva: È vero che la nostra campagna sarebbe assai bella, e fruttifera, se non mancassero quasi assolutamente le piogge da maggio fino a settembre; ma a queste si può in qualche modo riparare, col mettere a profitto le acque, ed estendere il più possibile le irrigazioni (2).
Ma c’è di più. Considerato che in epoca storica il clima in Sicilia non ha subito variazioni sensibili, se le condizioni ambientali fossero state così proibitive come descritte dal Principe Salina sarebbe difficile comprendere perché tanti popoli, sbarcati in armi da chissà dove (a proposito: se ne possono contare una ventina, partendo da Sicani e Siculi), si siano a più riprese catapultati nell’Isola, facendo a gara per conquistarne il dominio, ora col proposito di restarci (vedi Greci e Arabi), ora per saccheggiarne le ricchezze accumulate (vedi la Roma di Verre). Così come arduo sarebbe spiegare la straordinaria potenza raggiunta da città come Siracusa e Agrigento, tanto da battere per mare e per terra giganti economico-militari come Atene e Cartagine dei tempi d’oro, e a lungo contrastare la Roma imperiale. Al contrario, è proprio grazie al clima che la Sicilia, dipinta da viaggiatori e poeti come il “giardino del Mediterraneo”, ha sempre potuto vantare una biodiversità tra le più elevate del Vecchio Continente in tutti i campi (flora, fauna, agricoltura, forme di allevamento), rendendola a lungo così attrattiva. Ancora oggi (vedi congresso sulle sementi antiche di grano tenutosi a Roma il 16 maggio scorso), il 25% della biodiversità agraria europea si concentra nell’Isola, una minuscola parte del Continente. Senza contare, come fa osservare anche Chevalley, che il clima si vince e il ricordo dei cattivi governi si cancella.
Altro aspetto controverso riguarda il paesaggio, una componente del racconto presente qua e là, sempre descritta con accenti negativi, e che irrompe con violenza nel tratto che segue:
Gli alberi! Ci sono gli alberi!
Il grido partito dalla prima delle carrozze percorse a ritroso la fila delle altre quattro, pressoché invisibili nella nuvola di polvere bianca; e ad ognuno degli sportelli volti sudati espressero una stanca soddisfazione.
Gli alberi, a dir vero, erano soltanto tre ed erano degli eucaliptus, i più sbilenchi figli di Madre Natura. Ma erano anche i primi che si avvistassero da quando, alle sei del mattino, la famiglia Salina aveva lasciato Bisacquino. Adesso erano le undici e per quelle cinque ore non si erano viste che pigre groppe di colline avvampanti di giallo sotto il sole (3).
Ebbene, quelle piante sbilenche non sono affatto opera di Madre Natura ma dell’uomo che, dopo averle importate nel XVII secolo dalle remote terre d’Australia, le ha relegate, nella fattispecie, in un ambiente tutt’altro che consono alle loro esigenze vitali; così come frutto dell’azione antropica sono le groppe di colline avvampanti di giallo sotto il sole.
Faccio presente che, fino alla dominazione araba (secoli IX-XI), la Sicilia poteva ancora ritenersi relativamente boscata, nonostante la perseverante politica romana che per otto lunghi secoli l’aveva voluta “granaio” dell’impero, privilegiando in tutti i modi la cerealicoltura a scapito delle colture arboree. Poiché, come hanno dimostrato le stesse indagini effettuate al tempo del governo borbonico, i 9/10 della Sicilia erano per tanti secoli rimasti in mano a poche famiglie di feudatari, se i boschi residui erano scomparsi perfino sui monti più impervi, a chi attribuire la responsabilità se non a quella classe dominante a cui don Fabrizio appartiene? Può egli ignorare che interesse esclusivo dei grossi proprietari terrieri era sempre stato il conseguimento del massimo interesse immediato, con esclusione di qualsiasi attenzione per l’ambiente? Che mai erano stati eseguiti miglioramenti fondiari, come invece avvenuto altrove, per sopperire alla lamentata carenza idrica e per migliorare le condizioni miserevoli dei contadini? Il nobile feudatario, piuttosto, aveva preferito lasciare ad altri la gestione delle sue terre (i famigerati gabellotti), ritenendo perfino disdicevole occuparsi delle basse questioni economiche. È dovuto arrivare in casa Salina don Calogero Sedara, il rampante prototipo della borghesia emergente, per vedere risolte in breve tempo questioni che si trascinavano da decenni: Pian piano, quasi senza avvedersene, don Fabrizio raccontava a don Calogero i propri affari, che erano numerosi, complessi e da lui stesso mal conosciuti: questo non già per difetto di penetrazione, ma per una sorta di sprezzante indifferenza al riguardo di questo genere di cose, reputate infime, e causata in fondo in fondo dalla indolenza e dalla sempre sperimentata facilità con la quale era uscito dai mali passi mediante la vendita di qualche centinaio fra le migliaia dei propri ettari (4).
Come risulta anche dal romanzo, sorge perfino il dubbio che i feudatari, trattenuti in città da ben altri interessi, conoscessero i loro possedimenti, raffigurati in stampe appariscenti facenti bella mostra di sé negli ampi saloni di lussuosi palazzi: Dalle pareti a calce si riflettevano sul pavimento, tirato a cera, gli enormi quadri rappresentanti i feudi di casa Salina: spiccanti a colori vivaci dentro le cornici nere e oro si vedeva Salina, l’isola dalle montagne gemelle […]; Querceta con le sue case attorno alla tozza Chiesa Madre […]; Ragattisi stretto fra le gole dei monti; Argivocale minuscolo nella smisuratezza della pianura frumentaria […]; Donnafugata con il suo palazzo barocco […]; molti altri ancora, tutti protetti dal cielo terso e rassicurante, dal Gattopardo sorridente fra i lunghi mustacchi (5).
Lo stesso Principe è in qualche modo consapevole dei mali atavici della Sicilia, anche se propenso ad autoassolversi:Adesso, confida a Chevalley, anche da noi si va dicendo, in ossequio a quanto hanno scritto Prudhon e un ebreuccio tedesco del quale non ricordo il nome, che la colpa del cattivo stato di cose, qui ed altrove, è del feudalismo; mia cioè, per così dire. Sarà. Ma il feudalismo c’è stato dappertutto […] (6).
Affermazione quanto mai opinabile. Vero è che il regime feudale ha allignato anche altrove, in patria e all’estero, ma certo non con le modalità assunte in Sicilia, né per lo stesso lasso di tempo. Basta osservare ch’esso cominciava a mettere radici qui quando nell’Italia centrosettentrionale già declinava a tutto vantaggio dei Comuni dei banchieri e delle Repubbliche marinare, e che da noi si sarebbe perpetuato, nelle forme deteriori sopra ricordate, per quasi mille anni (formalmente, dall’arrivo dei Normanni nel secolo XI fino al 1812, nella sostanza ben oltre la seconda guerra mondiale). Impedendo in tutto questo tempo, alla strenua difesa del latifondo, la formazione della piccola e media proprietà contadina e la nascita di una dinamica classe imprenditoriale.
Un ultimo cenno desidero riservare alla caccia, attività prediletta del Principe, come di costume tra nobili e regnanti. Ad essa il Tomasi riserva una delle pagine più toccanti di tutto il romanzo, trascritta di seguito quasi integralmente:
[…] quella mattina Arguto e Teresina iniziarono la danza religiosa dei cani che hanno scoperto la selvaggina: strisciamenti, irrigidimenti, prudenti alzate di zampe, latrati repressi: dopo pochi minuti, un culetto di peli bigi guizzò fra le erbe, due colpi quasi simultanei posero termine alla silenziosa attesa; Arguto depose ai piedi del Principe una bestiola agonizzante. Era un coniglio selvatico: la dimessa casacca color di creta non era bastata a salvarlo. Orribili squarci gli avevano lacerato il muso e il petto. Don Fabrizio si vide fissato da grandi occhi neri che, invasi rapidamente da un velo glauco, lo guardavano senza rimprovero, ma che erano carichi di un dolore attonito rivolto contro tutto l’ordinamento delle cose; le orecchie vellutate erano già fredde, le zampette vigorose si contraevano in ritmo, simbolo sopravvissuto di una inutile fuga: l’animale moriva torturato da una ansiosa speranza di salvezza […]. Mentre i polpastrelli pietosi accarezzavano il musetto misero, la bestiola ebbe un ultimo fremito e morì; ma don Fabrizio e don Ciccio avevano avuto il loro passatempo; il primo anzi aveva provato in aggiunta al piacere di uccidere anche quello di compatire (7).
Considerazioni amarissime che mi sento, questa volta, di pienamente condividere.
Note:
(1) Giuseppe Tomasi di Lampedusa, Il Gattopardo, Feltrinelli Editore 1959, pp. 90-91.
(2) Paolo Balsamo, Giornale di viaggio fatto in Sicilia, Palermo 1809, p.303.
(3) Giuseppe Tomasi di Lampedusa, op. cit., p. 25.
(4) Ibidem, p. 68.
(5) Ibidem, p. 15.
(6) Ibidem, p. 93.
(7) Ibidem, pp. 50-51.