Basta a salvare l’ambiente la modifica della Costituzione?
E’ passata in sordina la notizia della recente modifica degli articoli 9 e 41 della Costituzione italiana, poco valorizzata a livello nazionale e pressoché ignorata dagli organi di informazione locali. Eppure è uno di quegli eventi che a ragione si possono definire storici, e ciò per vari motivi:
a) è la prima volta in 74 anni che viene modificato uno dei primi 12 articoli della nostra Carta, quelli che delineano i Principi fondamentali, i valori inviolabili ai quali conformare tutta l’azione legislativa e politica della Repubblica;
b) è la prima volta, a mia memoria, che una modifica di tale portata venga approvata in meno di otto mesi (9 giugno 2021-8 febbraio 2022), un tempo oltremodo breve, considerato che in casi come questo occorrono quattro distinti passaggi parlamentari, due alla Camera e due al Senato, distanziati l’uno dall’altro di almeno tre mesi;
c) è la prima volta che si registra la totale unanimità di tutte le forze politiche presenti in Parlamento (un solo voto contrario e 6 astenuti), cosa che rende, com’è noto, la riforma immediatamente esecutiva, non essendo richiesto il referendum confermativo.
Altra giornata memorabile è da considerare il tre marzo scorso, quando la Camera ha approvato in via definitiva, anche questa all’unanimità, la proposta di legge sui reati contro il patrimonio culturale e paesaggistico, collocando in un titolo apposito gli illeciti penali attualmente ripartiti tra codice penale e codice dei beni culturali, introducendo nuove fattispecie di reato, innalzando le pene edittali vigenti: insomma, dando attuazione ai principi costituzionali in forza dei quali il patrimonio culturale e paesaggistico necessita di una tutela ulteriore rispetto a quella offerta alla proprietà privata.
É interessare sapere che alla prima stesura dell’articolo 9 della Costituzione misero mano alcuni giganti della nostra cultura nazionale: Concetto Marchesi (insigne latinista, uomo di spicco della Resistenza e rettore dell’Università di Padova), Aldo Moro (accademico, giurista, politico italiano di primissimo piano) e, indirettamente come vedremo, Benedetto Croce (storico, politico, critico letterario e tra i maggiori filosofi dell’età moderna). I primi due non solo stesero materialmente il secondo comma dell’articolo (il primo è attribuito a Umberto Nobili, costruttore e comandante di aeronavi, esploratore, ingegnere e accademico italiano) ma si videro costretti a difenderlo strenuamente nel corso dei lavori dibattimentali dagli attacchi di Costituenti che lo ritenevano “superfluo”, in quanto implicito in altri articoli, e perfino “ridicolo”. Marchesi, in particolare, insistette molto sulla necessità che la “tutela del paesaggio e del patrimonio storico e artistico” fosse di competenza statale e non demandata alle Regioni o ai Comuni, onde evitare frammentazione e disomogeneità territoriale degli interventi.
Per il concetto di paesaggio, i due redattori del comma si avvalsero della definizione dettata nel 1922 da Benedetto Croce, autore della prima legge sulla “tutela delle bellezze naturali” in qualità di ministro della pubblica istruzione dell’ultimo governo Giolitti: Il paesaggio altro non è che la rappresentazione materiale e visibile della patria, coi sui caratteri fisici particolari, con le sue montagne, le sue foreste, le sue pianure, i suoi fiumi, le sue rive, con gli aspetti molteplici e vari del suo suolo, quali si sono formati e pervenuti a noi attraverso la lunga successione dei secoli.
D’altronde, sulla legge Croce si sarebbe fondata la legge Bottai del 1939 “a protezione delle bellezze naturali”, la quale ha anche il merito di avere individuato due strumenti che in seguito avrebbero avuto notevole fortuna: l’identificazione da parte del Ministero competente di apposite aree protette “a causa del loro interesse pubblico” e la redazione di “piani territoriali paesaggistici” da depositare nei singoli Comuni: strumenti questi che, a partire dagli anni ’80 del secolo scorso, hanno portato all’istituzione di Parchi e Riserve naturali, nazionali e regionali, e ai Piani regolatori comunali.
Ma cosa cambia nella pratica con le modifiche apportate?
Grazie alla nuova formulazione dell’articolo 9, la Repubblica, non solo tutela il paesaggio e il patrimonio storico ed artistico della Nazione (2° comma, già esistente), ma tutela altresì l’ambiente, la biodiversità e gli ecosistemi, anche nell’interesse delle future generazioni. Disciplina, inoltre, i modi e le forme di tutela degli animali (3°comma, di nuovo conio).
Dal canto suo, l’articolo 41, così come integrato, riserva alla legge la possibilità di indirizzare e coordinare l’attività economica, pubblica e privata, oltre che ai fini sociali, anche al rispetto della salute e dell’ambiente (da notare che anche questo articolo, nella sua formulazione originaria, può vantare alcuni grandi “padri nobili”, quali Giuseppe Dossetti, Palmiro Togliatti, Paolo Emilio Taviani, Amintore Fanfani).
Una clausola di salvaguardia, infine, stabilisce che la legge statale che disciplina le forme di tutela degli animali si applica anche alle Regioni a statuto speciale e alle Province autonome, nei limiti delle competenze legislative ad esse riconosciute dai rispettivi statuti.
Tutte queste modifiche ed integrazioni, tra l’altro, allineano l’Italia a molti altri paesi europei che prima di noi avevano inserito in Costituzione la tutela dell’ambiente nel senso indicato (Belgio, Francia, Finlandia, Germania, Grecia, Norvegia, Paesi Bassi, Portogallo, Spagna).
Le nuove formulazioni dei due articoli non sono di poco conto. Da oggi, infatti, la tutela dell’ambiente, della biodiversità, degli ecosistemi e degli animali rientra a tutti gli effetti nei principi fondamentali della Costituzione, ai quali pertanto dovrà uniformarsi ogni provvedimento di legge, a qualsiasi livello adottato, pena l’eventuale impugnativa presso la Corte costituzionale (si pensi, per dare un’idea, alle leggi di sanatoria edilizia e ai condoni succedutisi in Italia dal 1985 in poi, col conseguente stravolgimento di centri storici, spiagge, montagne, fiumi e zone umide di grande pregio).
Ciò per gli aspetti formali.
Ma più importante ancora è la sostanza che risiede nel totale ribaltamento di prospettiva. L’ambiente, coi suoi componenti, non è più visto come teatro in cui l’uomo opera, considerato a suo uso e consumo esclusivo; non più come oggetto di cui si può disporre a piacimento, ma come soggetto titolare di diritti autonomi. La natura e gli animali, insomma, non vanno rispettati in quanto funzionali all’uomo, ma per se stessi (si considerino, ad esempio, le leggi sulla caccia, per le quali gli animali sono visti come semplice oggetto di svago e di divertimento).
Come è facile comprendere, si è in presenza di un’autentica rivoluzione culturale, e proprio per questo sorprende, fino a scandalizzare, lo scarso rilievo dato dai mass mèdia alla “buona nuova”, che infatti è generalmente ignorata.
A questo punto, una domanda, come usa dire, sorge spontanea: sono le modifiche apportate alla Costituzione sufficienti a tramandare alle generazioni future il patrimonio naturalistico così come giunto fino a noi, semmai opportunamente migliorato? La risposta, purtroppo, non può che essere negativa o quanto meno improntata a forti dubbi e perplessità. E ciò, da un lato, per le obbiettive difficoltà connesse alla natura particolarissima del patrimonio in questione, ma soprattutto alla luce della lunga esperienza pregressa.
Gli ecosistemi, la biodiversità, la flora e la fauna non sono categorie stabili e ben definite come libri, quadri, statue, opere architettoniche, reperti archeologici: tutte cose che possono e devono essere preservate da furti, manomissioni, inquinamenti, usura del tempo, magari da visitare con periodici interventi di restauro. Gli ecosistemi e il paesaggio, per contro, sono entità complesse e per di più in continua evoluzione sotto la spinta di forze endogene ed esterne, non ultime quelle dovute all’intervento antropico. Individuare queste tendenze ed assecondarle non è cosa agevole, seppure sempre possibile attraverso attenti ed assidui monitoraggi, visti alla luce delle acquisizioni più aggiornate della ricerca scientifica.
Più insidiosi, invece, sono i pericoli provenienti dai nostri comportamenti. È un fatto storicamente verificabile che, in vigenza degli articoli 9 e 41 della Costituzione, il nostro patrimonio paesaggistico e architettonico, pur giuridicamente tutelato ai massimi livelli, ha subito ogni tipo di offesa, tanto che in atto giacciono sfigurate intere plaghe dello splendido territorio nazionale, dal Veneto alla Liguria, da Nord a Sud, dalla Sicilia alla Sardegna. Nonostante la legge Galasso a tutela dei beni paesaggistici e ambientali (la numero 431/85), le reiterate denunzie di Associazioni ambientaliste e le prese di posizione di benemeriti uomini di cultura: da Pier Paolo Pasolini a Giorgio Bocca, da Antonio Cederna a Indro Montanelli, da Mario Rigoni Stern a Salvatore Settis.
Tutto questo non è avvenuto per caso o per avverse congiunture astrali, ma per la carente sensibilità del cittadino medio nei confronti dei così detti beni comuni, sicché ogni volta che l’interesse privato confligge con quello pubblico è sempre quest’ultimo a soccombere, a motivo che il primo è sì perseguito da piccole minoranze, ma determinate e combattive, laddove l’altro, pur investendo milioni di persone, è poco o niente rappresentato e difeso.
Dobbiamo onestamente ammettere che, con le debite eccezioni, siamo tanto attaccati ai nostri beni privati quanto disinteressati a quelli collettivi, al “mio” anziché al “nostro”, a partire dall’ambito condominiale. Disposti ad ingaggiare guerre giudiziarie interminabili, magari contro amici e parenti, per rivendicare la proprietà di un fazzoletto di terra, un presunto diritto di passaggio, il possesso di un rudere, non alziamo un dito per difendere una città, una spiaggia o un bosco da indecenti speculazioni edilizie, opere pubbliche inutili, sovradimensionate o inquinanti, dubbi interventi di valorizzazione turistica o di conversione industriale. Sono certo che chi legge questa nota ha in mente esempi di lembi incantevoli di territorio che, con melliflue motivazioni socio-economiche, sono stati stravolti al punto tale da indurre alla fuga gli stessi che vi erano prima accorsi per i loro pregi paesaggistici. Ma distrutto un sito se ne trova da aggredire altro, magari invocando motivazioni più aggiornate. Non diversamente da quanto avviene in alcune tribù primitive che bruciano splendide foreste millenarie per destinare i terreni liberati dal fuoco all’agricoltura e al pascolo, fino a quando non si vedono costretti a incenerire altre foreste, essendo i terreni di prima diventati nel frattempo sterili e inospitali.