L’ingratitudine dell’uomo moderno verso il mondo contadino
“Studia, studia, altrimenti ti toccherà zappare la terra o pascolare le pecore”. Così nei decenni passati i genitori ammonivano i figli poco impegnati sui libri di scuola, con implicito disprezzo per il lavoro dei campi e dei relativi addetti. In televisione, ha scritto Michele Serra sul quotidiano “La Repubblica”, non c’è palinsesto che non presenti cuochi, fornelli, ristoranti e ricette, ma sono pochissime le trasmissioni dedicate agli uomini e agli animali che generano il cibo. Aggiungendo che si considera normale pagare poco i generi alimentari di prima necessità e tanto i prodotti voluttuari.
Perfino la laurea in Scienze Agrarie è stata (ed è tutt’ora) considerata di serie B, rispetto ad altre (che non cito per onore di patria) ritenute più prestigiose e gratificanti.
Ma è giustificato questo atteggiamento nei confronti di chi, con sacrifici e fatica, sfidando i capricci del clima, l’imponderabilità dei processi biologici e l’alea del mercato consente a tutti gli altri di praticare mestieri e professioni meno disagevoli e più gratificanti? Non misurano tali sentimenti la distanza siderale che ormai separa l’uomo tecnologico dai suoi bisogni primari? È talmente facile per il cittadino metropolitano (purtroppo non per tutti!) procurarsi quanto serve per nutrirsi, vestirsi e curarsi, ch’egli ritiene del tutto naturale ignorare l’origine di quanto usa giornalmente, e superfluo chiedersi a chi essere grato per questo privilegio. Si pensi, per citare un caso, a quanto sarebbe successo se i tutti contadini avessero incrociato le braccia, facendoci mancare il necessario da mettere a tavola, al tempo del lockdown del 2020, quando molti di noi se ne stavano rintanati in casa al calduccio dei termosifoni e al riparo dell’infezione da Covid-19!
Molti dei nostri bambini (e non solo loro) hanno difficoltà a riconosce il chicco di grano, il frutto del cacao (cabossa) o la canna da zucchero, per richiamare prodotti i cui derivati sono di larghissimo consumo. E forse anche a riconoscere gli animali che forniscono prodotti di uso quotidiano come lana, seta, latte, carne, uova, miele.
Ma è stato sempre così?
Del ruolo giocato dall’agricoltura sulle nostre sorti furono ben consci i popoli antichi, tanto da attribuirla a generosa concessione degli dei. Osiride, secondo la tradizione orientale, avrebbe insegnato agli uomini l’arte di lavorare la terra; Cerere, dea dalle bionde chiome, avrebbe donato i primi chicchi di grano a Trittòlemo, figlio di Cèleo, grata per l’aiuto ricevuto da quest’ultimo nel ritrovamento della figlia Proserpina, rapita dall’irruento Plutone ed emersa in primavera dagli inferi. Di agricoltura parlano la Bibbia degli Ebrei, il codice babilonese di Hammurabi, statue e pitture egiziane, l’Odissea di Omero, grandi scrittori greci come Esiodo (I giorni e le opere, VIII-VII sec. a. C.) e Teofrasto (IV sec. a. C). Agricoltore è Caino come Abele è pastore, agricoltori sono Noè e i sui figli, agricoltore è Laerte, re di Itaca e padre di Ulisse, contadino egli stesso. Presso l’antica Roma, l’agricoltura riceve la massina celebrazione grazie a poeti come Virgilio (Georgiche, Bucoliche) e Lucrezio (De rerum natura); grandi tecnici e scienziati come Plinio il Vecchio (Naturalis historia), Catone il Censore (De agricoltura), Columella (Res rustica), Palladio (Opus agricolturae), Varrone (Res rusticae). Un’apposita istituzione religiosa, quella dei 12 sacerdoti Arvali (Arva sta per terre coltivate), aveva il compito di offrire agli dei le primizie della terra in segno di ringraziamento per le messi raccolte. Romolo stesso, primo re di Roma, sarebbe stato un Arvale, a significare l’importanza del ruolo. Specie nel periodo repubblicano, perfino i nobili di rango non disdegnavano di applicarsi ai lavori campestri, menandone anzi gran vanto. Sembra che Plinio il Vecchio abbia chiesto il permesso all’imperatore Traiano di potersi allontanare da Roma per curare di persona la potatura dei suoi ulivi. Per Catone il Censore gli agricoltori, assicurando i mezzi di sussistenza a tutti i cittadini, erano da considerare la colonna portante dello Stato. La raccolta dei frutti della terra era motivo di gioia e di feste collettive, tradizione che ancora si conserva in molte zone di Sicilia in occasione della vendemmia e della tosatura, operazioni che vedono la partecipazione di uomini, donne, bambini, amici e conoscenti e che si conclude in allegria davanti a tavole riccamente imbandite.
Scaduta alquanto durante le invasioni barbariche, la coltura della terra torna in auge nel tardo Medio Evo, fino a toccare l’acme nel XIX secolo, quando viene posta alla base della ricchezza delle Nazioni, contro l’industrialesimo e il mercantilismo, ritenute attività parassite (è la così detta teoria fisiocratica, emblematicamente rappresentata in Italia dai grandi miglioramenti fondiari introdotti da Cavour).
Ho sempre ritenuto quella del contadino un’arte nobile, ancorché faticosa ed aleatoria, trovando conforto nel parere di tanti scrittori celebri, ultimo dei quali Pietro Cuppari, l’insigne agronomo messinese del quale mi sono occupato recentemente. Egli scrive in proposito: Sarebbe pur tempo di smettere il pessimo costume di destinare alla professione [di agricoltori] coloro i quali, per pochezza di mente o per mala voglia, giudicansi insufficienti ad altri uffici reputati più nobili e lucrosi. E ancora: L’economia rurale fornisce quasi tutte le materie prime richieste dagli umani bisogni in tutti gli stati di civiltà […] o ad apprestare i materiali bisognevoli ad arti meno necessarie al vivere umano, ma che soddisfano bisogni che nascono in uno stato più civile di vivere.
Personalmente mi sono spinto ancora oltre, sostenendo che la Storia studiata nelle scuole (intessuta di personaggi, dinastie, guerre, rivoluzioni, conquiste, trattati di pace, ecc.), potrebbe essere riscritta ripercorrendo le tappe via via attraversate dall’agricoltura da quando dalla Mezzaluna Fertile, in Mesopotamia, dov’è nata circa 11-12 mila anni fa, si è diffusa in tutto il bacino del Mediterraneo, spingendosi dopo qualche migliaio di anni fino ai brumosi Paesi nordeuropei.
Vista sotto questa luce, ci si potrebbe chiedere, ad esempio, quando, da chi e da dove sono arrivati in Occidente l’ulivo, la vite, gli agrumi, il pesco, l’albicocco, il pomodoro. O anche il cotone, il lino, la canapa, la seta. O ancora, gli animali da carne, da latte, da soma, da tiro e quelli atti all’arte bellica.
Quando e come ha imparato l’uomo a trasformare il grano in pane, l’uva in vino, le olive in olio, la frutta in confetture? A conservare, senza farli deperire, prodotti di prima necessità, da utilizzare nei periodi di carenza alimentare? A intrecciare fibre animali e vegetali per farne indumenti più confacenti alla bisogna, in cambio delle rudimentali pelli di capra o di montone?
Tutto ciò considerato, sembra ragionevole parlare addirittura di civiltà fondate interamente sulle piante: la civiltà del grano per quella occidentale, del riso per quella orientale, del mais per quella americana e della manioca per l’africana, tenuto conto che a tali colture si sono uniformati organizzazione sociale, strutture abitative, opifici di trasformazione, tradizioni popolari, ricette di cucina e le stesse religioni. È noto, ad esempio, come gran parte delle feste paesane in Sicilia cadano in periodi successivi alla raccolta del frumento, quando i fedeli, un tempo a corto di moneta circolante, potevano assicurare offerte in natura per le feste dei Santi protettori, e i contadini, la parte preponderante della società preindustriale, riservare più spazio allo svago e alla devozione, grazie alla relativa stasi imposta al lavoro dei campi dalla stagione calda e asciutta. Ancora oggi, sulla scia di tradizioni consolidatesi in contesti storici ormai superati, gran parte dei matrimoni viene celebrato nei mesi estivi.
Ma c’è di più. All’interno delle civiltà principali edificate sulle colture prevalenti, altre più circoscritte si sono coagulate attorno a colture secondarie, come quella del castagno sull’Appennino tosco-emiliano fino agli anni ‘60 del secolo scorso, del granturco nell’Italia nordorientale o del riso nella pianura padana. Anche in questi casi, tali piante hanno fortemente condizionando i rapporti economico-sociali, l’architettura (specie quella rurale), la cucina, gli usi e i costumi popolari.
Per la civiltà occidentale, a voler essere precisi, si dovrebbe più propriamente parlare di “triade mediterranea”: frumento, vite e olivo. Colture in grado di coesistere nello stesso ambiente e i cui cicli annuali si alternano con ritmo armonico, maturando il grano all’inizio dell’estate, l’uva in agosto-settembre, le olive in autunno. Colture, queste, che fin dall’età del bronzo hanno caratterizzato il nostro paesaggio collinare antropizzato e che costituiscono oggi l’essenza di quella “dieta mediterranea” recentemente dichiarata bene immateriale dell’umanità.