La posta in gioco dei cambiamenti climatici
Il 13 novembre scorso si è chiusa a Glasgow (Scozia) la così detta COP26, la Conferenza Onu sull’emergenza climatica che ha visto la partecipazione di ben 197 Stati di tutti i continenti. L’intesa, faticosamente raggiunta dopo 15 giorni di intenso dibattito e di forti polemiche, contiene linee guida tendenti al raggiungimento dell’obiettivo minimo, già fissato a Parigi nel 2015, di limitare il riscaldamento globale, rispetto ai livelli preindustriali, a non più di 1,5 gradi centigradi entro il 2100: risultato considerato dai più assai deludente, tenuto conto che l’auspicio era quello di raggiungere tale meta non oltre il 2050, data che avrebbe anche dovuto sancire la messa al bando in tutto il pianeta dell’uso delle energie fossili (a quanto si apprende, all’ultimo momento, con l’ausilio della Cina, l’India è riuscita a posticipare tale traguardo dal 2050 al 2100). I più ottimisti osservano tuttavia che, con tutti i suoi limiti, la Conferenza ha avuto anche aspetti positivi, avendo riconosciuto la necessità di assicurare un adeguato sostegno ai Paesi vulnerabili sotto l’aspetto climatico e posto le basi per raggiungere accordi più concreti già l’anno prossimo, quando a Sharm El-Sheikh, in Egitto, avrà luogo la COP27. Una cosa sembra certa in ogni caso: i tempi della politica sono tremendamente lenti rispetto alle necessità messe in luce dalla scienza.
Poiché penso che non tutti abbiano seguito il dibattito in corso in questi giorni, forse ritenendolo di difficile comprensione o di non propria pertinenza, mi permetto di riassumere i termini del problema e segnalare i pericoli che corriamo come genere umano (avverto che il pianeta terra, contrariamente a quanto sento ripetere spesso, non corre nessun rischio).
Cominciamo dall’inizio. Quando in Inghilterra, nella seconda metà del ‘700, è stato inaugurato l’avvento della così detta rivoluzione industriale, la concentrazione di CO2 in atmosfera era pari a 280 ppm (parti per milione), valore rimasto pressocché invariato negli ultimi 10.000 anni, stando alle analisi effettuate in varie parti del mondo, attraverso l’estrazione di “carotine” con bolle d’aria incorporate su antichi ghiacciai, sedimenti lacustri e torbiere. Nel 2019 tale valore era salito a 410 ppm, con un aumento medio di circa il 32% (in realtà nell’ultimo decennio è cresciuto di 2,5 punti all’anno). Ora, com’è ormai ampiamente risaputo, l’anidride carbonica è il principale gas serra, il composto cioè che, stratificandosi attorno al globo terrestre a formare una specie di cappa, impedisce al calore prodotto dai raggi solari di disperdersi nell’aria, per cui la temperatura media generale è andata aumentando, provocando i disastri che tutti conosciamo (scioglimento dei ghiacciai e sollevamento dei mari, siccità prolungate e piogge alluvionali, tifoni violenti, desertificazione, carestie, pandemie, estinzione in massa di piante e animali, scompensi in agricoltura, imponenti movimenti migratori, con tutto ciò che ne consegue).
Ma come si origina l’anidride carbonica? La risposta è quanto di più semplice si possa immaginare: con ogni forma di combustione. Non solo, quindi, la combustione che produce fiamme vive e temperature elevate (di cui tutti abbiamo esperienza), ma anche quella che avviene durante la normale digestione da parte degli organismi animali, uomini compresi (si dice infatti che bruciamo calorie), e in tutte le forme di fermentazione, naturale o indotta. Ebbene, per molti millenni, come sopra accennato, l’anidride carbonica prodotta da tali processi è stata assorbita in gran parte dalle piante verdi, terrestri e marine, attraverso quel prodigioso processo che chiamiamo sintesi clorofilliana e, per il resto, è stata sciolta nelle acque oceaniche con la formazione di prodotti a base di carbonio (carbonati, bicarbonati, acido carbonico), così pervenendo a un mirabile equilibrio tra CO2 prodotta e CO2 assorbita. Ciò fino a quando si è cominciato, da un lato, a bruciare prodotti petroliferi, gas e carbone fossile in grandi quantità e, dall’altro, a ridurre sensibilmente le superfici forestali. Da quel momento tale equilibrio è saltato, determinando appunto l’accumulo nell’atmosfera di sempre maggiori quantità di anidride carbonica, col relativo aumento termico di cui stiamo ragionando.
Se, dunque, è perfettamente noto il meccanismo che ha condotto all’attuale situazione critica, e conoscendo le conseguenze disastrose di tale stato, non dovrebbe essere facile, verrebbe da pensare, mettere in atto gli opportuni rimedi? In fondo, basterebbe vietare da subito la distruzione delle foreste esistenti ed anzi, ove possibile, impiantarne di altre, e sostituire le fonti energetiche fossili, fortemente inquinanti, con altre rinnovabili, assai più pulite. Perché, invece, è così arduo trovare un accordo ragionevole fra gli Stati, come la COP 26 ha dimostrato, e (io aggiungo) trovare soluzioni anche all’interno di uno stesso Paese? La ragione risiede nel fatto che ogni decisione comporta, a livello mondiale, penalizzazioni a carico di alcune Nazioni e, a livello locale, limitazioni in conto di alcune categorie sociali, se non di tutti i cittadini. É giusto, domandano i Paesi poveri e quelli che a fatica stanno venendo fuori dalla miseria, chiedere loro sacrifici da parte degli Stati più ricchi, quegli stessi, tra l’altro, che per secoli hanno inquinato impunemente e spesso saccheggiato le loro risorse? E inoltre: è vero che Paesi come India e Cina, a causa delle loro sterminate popolazioni, immettono attualmente nell’aria le maggiori quantità di gas serra in assoluto, ma è vero altresì che un australiano o un americano produce più CO2 di un indiano o di un cinese, tenuto conto del suo più alto tenore di vita (si considerino, ad esempio, le tonnellate di CO2 emesse pro capite nel 2017: Australia 17 circa, Stati Uniti 16, Cina 7, Brasile 2, India 1,84). Non dimentichiamo che in Occidente si muore più spesso per malattie legate all’eccesiva quantità di alimenti ingeriti (obesità, malattie cardiache, diabete, ecc.), laddove in altri Paesi si muore d’inedia, mancanza d’acqua potabile, cure mediche decenti. Non sarebbe corretto, quanto meno, che coloro i quali più hanno avuto fino ad oggi e continuano ad avere tuttora cedano qualcosa ai meno fortunati? Durante la COP25 di Parigi del 2015 si era ipotizzato di trasferire ai Paesi più poveri 100 miliardi all’anno a titolo di compensazione dei sacrifici loro richiesti, ma a Glasgow nessuno accordo si è riusciti a trovare su come ripartire quella somma, rinviando tutto a tempi migliori. Fatto sta che di cambiamenti si dibatte da oltre 30 anni, senza trovare soluzioni condivise e funzionali. Ricordo che tutto il processo prende avvio il 6 dicembre 1988, quando l’Assemblea generale delle Nazioni Unite approva all’unanimità una risoluzione avente per oggetto la Tutela del clima globale per le generazioni presenti e future dell’umanità. Da allora si sono succedute altre 25 Assemblee Generali dell’ONU, tra cui Rio de Janeiro (Brasile, 1992), Kioto (Giappone, 1997), Copenaghen (Danimarca, 2009), Varsavia (Polonia, 2013), Parigi (Francia, 2015), tralasciando tutte le altre fallite miseramente.
Non meno complessa è la situazione che si presenta all’interno di ciascun Paese, compreso il nostro, quando si cerca di affrontare il problema dei cambiamenti climatici, poiché occorre chiedere a chi produce di operare costose riconversioni industriali, optando per beni ecocompatibili e meno energivori, e ai cittadini di cambiare radicalmente le loro abitudini, rinunziando a regimi alimentari non sostenibili sul piano ambientale (peraltro poco salutari), sprechi di energia, beni superflui e comodità d’ogni genere, di cui sembra impossibile ormai fare a meno.
Ma questa è tutta un’altra storia.