La lettura salverà gli uomini dall’asservimento totale
Secondo le acquisizioni più recenti della neuropsichiatria e dell’antropologia (F. Facchini, Evoluzione, uomo e ambiente, Torino 1988), sarebbe in atto, da alcuni decenni, a partire della seconda metà del secolo scorso, un’effettiva «mutazione antropologica» nel mondo occidentale, e soprattutto in Italia, causata dalla diffusione capillare della televisione e quindi dell’informatica (computer, smartphone ecc.), nonché dalla contestuale, e direttamente proporzionale, atrofizzazione dei tradizionali canali della comunicazione scritta (libri, giornali ecc.).
Non si tratta tanto della funzione diseducativa della televisione (affrontata da Pasolini, nei primi anni Settanta del secolo scorso e sempre attuale tuttavia), quanto di un evento di portata straordinaria che rischia di travolgere la nostra vita e i modelli culturali vigenti, compreso quelli della democrazia, della libertà, della dignità della personalità umana ecc.
Si sarebbe, infatti, passati da una cultura del leggere (del pensare, dell’ascoltare) a una cultura del vedere e del digitare. E parallelamente dall’ homo sapiens (dotato d’intelligenza «sequenziale», progressiva, incrementata dalla lettura e finalizzata all’attività critica, scientifica e/o creativa: si pensi a Copernico o a Galilei) all’homo videns (spinto ad una conoscenza digitale, «simultanea», meramente esecutiva, meccanica, se non passiva cioè capace di trovare soluzioni solo dentro un programma multimediale preesistente, e perciò tendente a robotizzarsi).
È a partire dalla «seconda fase» della storia dell’umanità, coincidente con l’invenzione della stampa (nel 1400), che l’homo sapiens ha sviluppato, secondo il linguista e filosofo Raffaele Simone (La terza fase. Forme del sapere che stiamo perdendo, Laterza, Roma-Bari 2000), l’intelligenza «sequenziale», la quale gli ha consentito di trovare soluzioni a problemi che sembravano insolubili, di inventare macchine nuove, di scoprire certi segreti della natura e di trovare le eziologie delle malattie nonché le terapie adatte ecc.
Contestualmente, si sviluppavano aree specifiche del cervello umano che consentivano e agevolavano tali percorsi della conoscenza.
Laddove, a partire dalla seconda metà del Novecento (cioè nella «terza fase» appunto dello sviluppo umano, secondo Raffaele Simone) è ritornata, attraverso la televisione e i mass-media, la comunicazione non alfabetica dei primitivi, che sviluppa l’intelligenza simultanea e non propizia la vera conoscenza né la mentalità critica, ma produce solo l’accumulo indiscriminato di dati, lasciando peraltro che si atrofizzino, per inattività, le aree del cervello umano che alla ricerca e alla creatività spingevano.
Quanto dire che i nostri figli o nipoti (la digital generation) se abbandonassero del tutto la pratica della lettura e utilizzassero solo il computer (e i moderni mass-media) non solo sarebbero radicalmente, antropologicamente mutati rispetto a noi, ultimi campioni dell’homo sapiens, ma diventerebbero – se non sono già divenuti – tipici esponenti dell’homo videns, che sa tutto quello che vede (e sa ripeterlo), ma non va oltre: si accontenta, digitando, della prima soluzione a portata di mano che altri hanno programmato per lui. La previsione è tremenda, apocalittica: una generazione di subalterni, incapaci di pensare, di reagire e destinati a servire.
Il filosofo Umberto Galimberti non si stanca di mettere in guardia genitori ed educatori: «Ai ragazzi internet fornisce, dopo anni di guerra al nozionismo, un’infinità di informazioni slegate tra loro, ma non produce senso critico, connessione dei dati e, quindi, conoscenza. I maestri hanno dunque il compito di sviluppare il senso critico e mettere in discussione i dati». Di Galimberti si consiglia di leggere almeno I miti del nostro tempo, Feltrinelli, Milano 2009 (pp. 406).
Giovanni Sartori (Homo videns, Laterza, Roma-Bari 1997, pp.182), dei devastanti effetti della televisione è stato il primo, profetico indagatore: «I nostri bambini guardano la televisione per ore e ore prima d’imparare a leggere e a scrivere. La loro prima scuola è la TV […] Il bimbo è una spugna che assorbe e registra indiscriminatamente tutto quel che vede. Gli stimoli ai quali continua a rispondere da grande sono quasi soltanto audio-visivi. Si parla di una cultura dell’incultura, un’atrofia reale dell’intelligenza e una povertà culturale inarrestabile. […] l’homo sapiens deve tutto il suo sapere alla sua capacità di astrazione […]. I cosiddetti popoli primitivi avevano un linguaggio in cui primeggiavano le parole concrete. I popoli avanzati sono tali perché hanno acquisito un linguaggio astratto, un linguaggio a costruzione logica».
Spetta, dunque alla scuola (e, prima, alla famiglia) il compito immane di scongiurare l’avvento di una prevedibile società di servi eterodiretti, che non leggono più, ma vedono la televisione e usano perfettamente il computer o lo smartphone.
È peraltro scientificamente acclarato che la sola presenza del computer a scuola non riesce a migliorare le prestazioni degli studenti nella lettura e nella comprensione dei testi, nemmeno nel settore scientifico. Anzi, gli studenti che usano troppo il computer (anche più di sei ore al giorno!) hanno prestazioni peggiori di quelli che lo usano meno (si veda l’apposita relazione dell’OCSE, Organizzazione per la Cooperazione e lo Sviluppo Economico).
Tra diffusione della televisione, dei computer, dell’informatica e la crisi o l’abbandono della lettura da parte della digital generation c’è, dunque, un rapporto di causa ed effetto. Ma Romano Luperini (Il professore come intellettuale. La riforma della scuola e l’insegnamento della letteratura, Manni, Lecce 1998), suggerisce un’altra concausa, di natura storica: «È di moda dar la colpa alla scuola [della crisi, in Italia, della lettura], ma dovremmo chiederci perché in un paese come gli Stati Uniti […] le materie umanistiche sono curate meno che da noi, ma le file dei lettori sono molto più folte […]. La realtà è che noi non siamo un popolo del libro, non abbiamo avuto la Riforma e non siamo stati abituati a leggere i testi sacri. Abbiamo sempre subito e goduto della mediazione della Chiesa che […] ci ha viziati e ci ha resi molto più propensi alla cultura orale».
Tuttavia, secondo Luperini, «a scuola si potrebbe fare molto di più, si potrebbero invogliare i ragazzi alla lettura, avviarli all’avventura che si nasconde nei libri».
Occorre, dunque, che gli educatori leggano e facciano leggere poesie, romanzi (e non solo testi letterari: anche la lettura dei giornali o, al limite, dei fumetti, serve). E si dovrebbe insistere, in classe, sulla pratica del riassunto scritto e delle considerazioni finali dell’alunno, per abituarlo a dare la sua interpretazione dei testi (con la guida, ovviamente, dell’insegnante). Ma la scuola deve insegnare soprattutto ai ragazzi ad esprimersi, cioè ad essere sé stessi e non branco, Chi scrive non si stanca di proporre ai suoi allievi, da sempre, un aforisma da lui stesso coniato: «Mi esprimo, dunque, sono». E Galimberti insiste, da par suo, sulla educazione, attraverso la lettura di testi letterari, del sentimento, che non è naturale – naturale è lo stimolo del branco – ma s’impara appunto leggendo Petrarca, Leopardi, Montale …
Non bisogna dimenticare, tuttavia, che c’è anche un’«intelligenza visiva» che consente di fare un’esperienza del mondo vicina alla conoscenza della realtà esperita precocemente dai bambini quando ancora non sono abituati a veicolare le esperienze traducendole in parole. E in ciò, sembra svolgere una funzione positiva la televisione che, opportunamente fruita, potrebbe incrementare o secondare appunto la «intelligenza visiva», secondo Ian Robertson (2002).
Ad ogni modo, il rapporto tra lettura (ascolto, dialogo, scrittura) e visione diretta o indiretta (attraverso i mass-media) non ci sembra debba porsi, a scuola e nelle famiglie, in termini antitetici (aut/aut), bensì in termini conciliativi (et/et), dacché sarebbe puramente illusorio pensare di abolire la televisione o lo smartphone: più corretto appare, certamente, da parte di genitori e maestri/professori, un comportamento pedagogico che suggerisca ai bambini, ai preadolescenti e agli adolescenti, un uso limitato e guidato dei mass-media, insieme con il piacere enorme della lettura e l’effettivo arricchimento mentale che essa produce. Siamo ancora in tempo di salvarli dall’abbrutimento dell’homo videns.
Meritoria è, in questo ambito, l’azione di “Nati per leggere”: un’iniziativa, sorta nel 1999, con lo scopo di promuovere nella popolazione infantile (bambini di età compresa tra i sei mesi e i sei anni, prima dello sviluppo del linguaggio e prima della competenza alla lettura) occasioni di ascolto di letture eseguite ad alta voce, da parte di genitori e/o insegnanti, comunque legati da un forte legane affettivo o emozionale col bambino. Ricordando magari che, per Gianni Rodari, i genitori che rifiutano di leggere testi ai loro bambini, sin da piccolissimi, li predispongono a «odiare la lettura». Tornino, dunque, le mamme e i papà, a leggere, la sera, a letto ai bambini, le favole: li abituino ai ritmi e alla dolcezza infinita della lettura.
Pare, poi, che i preadolescenti e gli adolescenti siano invogliati alla lettura da libri di formato tascabile; di carte pastosa, robusta; stampati con caratteri grandi (dimensione 14), con molte figure (disegni, colori) e magari illustrati con fumetti, secondo il modello di Geronimo Stilton. La seconda tappa, di questo difficile percorso, sarebbe la lettura di libri per ragazzi (ma anche poemi e romanzi classici magari stampati con quegli stessi criteri editoriali, o con criteri editoriali similari) che non dovrebbero mancare in una biblioteca di classe in nessuna scuola: Iliade, Odissea, Eneide, Il libro della giungla, Le avventure di Tom Sawyer, Ventimila leghe sotto i mari, Il giro del mondo in ottanta giorni, I ragazzi della Via Pal, Don Chisciotte, Robinson Crusoe, I promessi sposi, I tre Moschettieri, Il conte di Montecristo, La certosa di Parma, I fratelli Karamazov, Guerra e pace, Marcovaldo, Il barone rampante, Signori bambini, per cominciare.