Merli e Malvizzi – la restaurazione spagnola a Messina [*]
Nel primo scorcio del 1600 la vita culturale e commerciale di Messina era quanto di più attivo vantasse l’intera isola: la Città contava circa 120.000 abitanti, godeva di singolari privilegi: il monopolio esclusivo della tratta della seta, il Porto Franco fonte di tanta ricchezza, la Zecca, il contatto diretto che il supremo magistrato della città (lo Stratigò) poteva avere col re, la residenza stagionale dei viceré (Filippo II nel 1591 aveva stabilito che i viceré di Sicilia trascorressero 18 mesi del loro vicereame nella città di Messina); e ciò la portava a contendere il primato alla rivale Palermo.
Nel 1622-24 sotto il viceré Emanuele Filiberto di Savoia fu costruita con una enorme spesa (2.500.000 scudi siciliani!) la Palazzata, una serie ininterrotta di palazzi lunga quasi un miglio con una sola scenografica facciata, che esaltava lo scenario di eccezionale bellezza del litorale e dietro cui viveva e pulsava una città sempre più in espansione, esaltata nel canto popolare Quantu è beddu lu portu di Missina / è chiddu ca criau tanti dinari / di quanti porti c’è porta la cima / ca sempri sparma bannera riali.
Nel 1629 una delegazione di messinesi si recò a Madrid alla corte di Filippo IV per protestare contro il rifiuto del nuovo viceré don Francesco Fernandez de la Cueva a trascorrere a Messina il tempo prescritto e offrì 1.000.000 di scudi perché il re dividesse il regno in due distinti viceregni con due capitali separate; ma il Senato palermitano e poi il Parlamento siciliano respinsero le istanze messinesi dichiarandole contrarie all’interesse della Sicilia e della Monarchia; da allora i dissensi tra le due città si convertirono in aperto odio che doveva protrarsi nel tempo, perciò da una parte si cantava Missina è ‘ngignusa, Palermu pumpusa / Missina la ricca, Palermu la licca e dall’altra si proclamava Palermu fa nobili e signuri / Missina scavi judei e latruni.
Le carestie del 1644-46, il brigantaggio e lo strapotere baronale, creò il presupposto per fomenti di massa:
nel 1647, a causa del rincaro del prezzo del pane deliberato dal Senato, vi fu una sommossa che sfociò nell’incendio di diverse abitazioni di Senatori; dopo le sommosse del 1671 lo Stratigò don Luigi de Hoyo, nell’intento di restaurare la pace sociale, assegnò meta dei seggi senatoriali al ceto popolare; la cosa non piacque alla nobiltà che nell’esclusività del potere poteva mantenere i propri privilegi ed esercitare il più sfacciato nepotismo.
La città in poco tempo si divise in due fazioni: una plebea, detta Merli dall’uccello ritenuto sciocco, sostenitori del governo e l’altra aristocratica, detti Malvizzi dal tordo uccello ritenuto più nobile, che oltre a tutelare i propri privilegi ora aspiravano anche a liberarsi del governo vessatorio degli Spagnoli.
Nel 1672 scoppiò in città un’altra carestia e gli animi delle opposte fazioni si caricarono ancora di odio e di rancore fino ad esplodere due anni dopo in conflitto aperto senza esclusione di colpi.
Il 6 luglio 1674 i Malvizzi, provocati per l’ingiusto arresto di uno di loro, posero l’assedio al palazzo reale e dopo 22 giorni di tumulti e disordini costrinsero alla resa lo stratigò don Diego Soria.
Da Palermo partì il viceré don Francesco Bazan de Bonadies. Ma di fronte alla massiccia reazione ei rivoltosi fu costretto a ritirarsi nella Rocca di Milazzo.
I Malvizzi si appellarono al re di Francia Luigi XIV il quale nell’intento di distrarre le forze spagnole impegnate contro la Spagna nella guerra contro l’Olanda, inviò proprie truppe.
L’intervento francese fece sperare in un radicale cambiamento non solo a Messina ma anche in tutta la Sicilia; nel 1282 con la guerra dei Vespri furono gli Spagnoli a cacciare i francesi, ora sono i francesi a caciare gli Spagnoli, riconducendo le sorti dell’isola agli interessi politici e economici dei due Stati stranieri.
La guerra franco-spagnola si concluse il 1678 con la pace di Nimega e cambiati gli indirizzi di politica generale (Carlo II di Spagna divenne cognato del re di Francia per aver sposato la sorella Maria Teresa), i francesi il 14 marzo abbandonarono Messina, che il 25 marzo fu ripresa come possedimento spagnolo; e a Palermo si cantò con gioia feroce: li Gaddi si parteru di Missina / ristau sulidda la Gaddina nana / si fici paci ppi la so’ ruina / cci persi l’oricchini e la cullana.
Molti messinesi che si ritenevano compromessi con la passata insurrezione, portando con sé quanto più potevano, presero la via del’esilio e dopo una breve ospitalità, furono costretti ad emigrare anche dalla Francia.
I pochi rimasti in Città, soggetti a rapine e vendette, “diedero il benvenuto alle truppe spagnole che ritornavano e versarono lacrime di gioia per essere stati liberati dalla tirannia della Francia e dai cattivi gentiluomini e borghesi ora inviati in esilio”. (Mack Smith, Storia della Sicilia)
Il 5 gennaio 1679 giunse a Messina don Francesco de Bonavides e in due anni di dura repressione divenne il “carnefice di Messina”: abolì il Senato e ogni privilegio, il Porto Franco, le Accademie Letterarie; vietò ai preti di predicare senza il suo permesso; nell’Orto botanico mandò a pascolare i cavalli; trasferì a Palermo la Zecca istituita sin dal tempo dei Zanclei; depredò e trafugò in Spagna e a Palermo i maggiori tesori posseduti dalla Città e dal Duomo, compresi i manoscritti greci donati da Costantino Lascaris nel 1400; fece abbattere il campanone servito a radunare il popolo nei momenti di pericolo e col metallo ricavato fece fondere una statua di Carlo II che pose in piazza Duomo dove prima sorgeva il palazzo del Senato, vigilata giorno e notte da guardie armate pagate dalla città; confiscò i beni degli esuli, inasprì le tasse e la dogana anche sui beni di prima necessità “sopra la seda, il mosto, aceite y trigo del producto de esto territorio”; con le somme ricavate fece costruire nel braccio di San Raneri la famigerata imprendibile Cittadella ad eterno freno dei malcontenti e ad ammonimento di ribelli:
Le conseguenze dell’insurrezione furono così disastrose per Messina da farle rimpiangere di averla fatta: Nun c’è cchiu fumu ‘nta la so’ cucina / e dispirata lu succursu chiama / lu portu è apertu e sta senza catina / nun c’è cchiu privilegiu né campana.
La Città si svuotò dei suoi uomini migliori: Guarino Guarini, Condrò e Andrea Gallo, Vincenzo Tedeschi, Francesco e Curzio Zaccarella, Luca Villamaci, i fratelli Maffei, Andrea Viola e altri artisti del 600 messinese lasciarono la Città per lavorare a Catania e altrove.
Messina divenne da allora “una città morta civilmente e incapace di qualsiasi specie di onori, l’autonomia politica, la vivace vita comunale e la sua prosperità economica sparirono e finiva la baldanza medievale in ciò che di veramente creativo aveva posseduto”. (F, De Stefano, Storia della Sicilia)
A gettare ancor più nella costernazione e nella miseria la gente, l’11 gennaio 1693 sopravvenne un violento terremoto, che scosse dalle fondamenta le case e distrusse Catania.
Questi fatti determinarono una regressione demografica della Città, talché la popolazione stanziale a fine secolo si ridusse a soli 11.000 abitanti.
Di fronte alla Cattedrale in piazza Duomo, sulla facciata di un palazzo, sono poste due lapidi a ricordo di quei tristi avvenimenti; in una si legge: Miseri sempre quanti in pro della Paria attendono da straniera mercede floridezza libertà salute.
E il nostro poeta Gianni Mangano piange coi suoi versi la triste sorte: Da ricca si ridduciu ‘na pizzenti / d’allura cominciau ‘u so’ declinu / ristau senza onuri e nullatinenti / iniziannu amaru ‘u so’ distinu. (da Missina 1678 in Raccolta di versi dialettali, 2010)
[*] Per le fonti si attinge a Storia di Messina 1983 di Salvino Greco e a Storia e folklore di Sicilia, Mursia 1973 di Santi Correnti.